Verso la Siberia, in viaggio con un cadavere
Narrativa francese Da Mosca a Novosibirsk, una voce monologante riepiloga i suoi ricordi in fiumi di parole: è un dichiarato omaggio a «La Prose du Transsibérien et de la petite Jehanne de France», il poema di Blaise Cendrars, illustrato da Sonia Delaunay
Narrativa francese Da Mosca a Novosibirsk, una voce monologante riepiloga i suoi ricordi in fiumi di parole: è un dichiarato omaggio a «La Prose du Transsibérien et de la petite Jehanne de France», il poema di Blaise Cendrars, illustrato da Sonia Delaunay
Aveva ragione Giorgio Manganelli, nel ritenere che, tra le peculiarità dell’uomo, la più specifica, la più bizzarramente significativa sia quella di essere un animale viaggiante? L’eventuale conferma di una simile ipotesi non può che passare per la definizione di cosa sia in effetti un viaggio, giacché è evidente che non basta spostarsi da un luogo a un altro per dirsi veri viaggiatori. Neppure Ulisse in fondo lo era. Se poi guardiamo al mondo contemporaneo, alle rotte del turismo di massa, il viaggio si riduce a una bella intenzione e riacquista una parvenza di dignità solo in quanto questione essenzialmente letteraria. Prendiamo un viaggiatore vero, uno scrittore di altri tempi, lo svizzero Blaise Cendrars. Scappò di casa a sedici anni e vagò senza requie in nome dell’ansia di farsi testimone, di vedere con i propri occhi per poi raccontare con l’autorità di chi ha visto, di chi c’è stato, di chi sa, di chi può dire di sé «Non intingo la penna in un calamaio, ma nella vita».
Di stazione in stazione
All’esempio di Cendrars si ispira un viaggiatore tra i più accaniti della letteratura contemporanea, Mathias Enard. Ripercorrendone a ritroso l’opera, troviamo un romanzo il cui titolo è lo strumento che meglio di ogni altro incarna l’idea del vero viaggio, Bussola; poi un libro illustrato che è un attraversamento dei Balcani, dei segni e delle rovine lasciati in quei luoghi dalla guerra; poi un romanzo sulla vita errabonda di un giovane arabo cacciato di casa perché sorpreso a letto con la cugina; poi il resoconto di un viaggio in tutta probabilità immaginario di Michelangelo Buonarroti a Costantinopoli; poi un altro romanzo, quello con cui qualche anno fa Enard si è imposto all’attenzione dei lettori anche italiani: Zona, storia di un viaggio in treno da Milano a Roma raccontato senza punti di sospensione né maiuscole, in un’unica frase di cinquecento pagine, alla maniera di un flusso di coscienza.
L’impianto di Zona riappare in L’alcol e la nostalgia, benché in misura assai più ridotta e espedienti letterari non altrettanto radicali (edizioni e/o, traduzione della sempre bravissima Yasmina Melaouah, pp. 107, € 12,00). Anche qui un viaggio in treno, stavolta da Mosca a Novosibirsk, e una voce monologante, i cui ricordi scorrono in un fiume di parole né più né meno come i paesaggi innevati scorrono nel finestrino. Adattamento di una fiction radiofonica scritta sulla Transiberiana, il testo è un dichiarato omaggio a La Prose du Transsibérien et de la petite Jehanne de France, poema di Blaise Cendrars illustrato da Sonia Delaunay e stampato nel 1912 in una tiratura limitata di cui sopravvivono pochi esamplari perlopiù custoditi in musei e biblioteche.
Voce del libro è uno scrittore francese di nome Mathias che attraversa la Russia, diretto a un villaggio della Siberia dove seppellirà l’amico Vladimir, in viaggio anch’egli sullo stesso treno, chiuso in una bara. Di stazione in stazione, Mathias ricostruisce per frammenti e digressioni erudite la relazione che ha legato lui, Vladimir e una certa Jeanne in un ménage à trois intriso di vodka, oppio e eroina. Che questo alter ego di Enard confessi di non essere un viaggiatore, anzi di odiarli perfino, i viaggi, è indicativo di come i tanti treni, il continuo spostarsi da un paese all’altro, costituiscano per Enard un modo di intendere lo scrivere, più che un’effettiva voglia di girare il mondo. Il viaggio è necessario non tanto per incontrare l’altro, quanto per disporre di uno specchio nel quale riflettere la vacuità dell’io, la sua frattura con il resto. C’è tuttavia nella logorrea di questi monologhi una vanità che rende l’opera di Enard straordinariamente attuale. Prendiamo la notte in cui Franz Ritter, il musicologo viennese di Bussola, si abbandona alle sue reminiscenze. Di tanto in tanto, tra uno struggimento per la donna che non l’ama e una dotta dissertazione su orientalismi e poeti persiani dimenticati, ci imbattiamo in riflessioni di questo tenore: «Un umanesimo fondato su cosa? Su quale universale? Su Dio, forse, ormai sempre più defilato nel silenzio della notte? Fra i tagliagole, gli affamatori, gli inquinatori – l’unità della condizione umana può fondare ancora qualcosa? Non ne ho idea. Il sapere, forse. Il sapere e il pianeta quale nuovo orizzonte possibile. L’uomo in quanto mammifero. Residuo complesso di un’evoluzione carbonica. Un rutto. Una cimice. Nell’uomo non c’è più vita di quanta ve ne sia in una cimice. Ce n’è altrettanta. Più materia, altrettanta vita».
Il pessimismo per la causa umana è un motivo che ricorre spesso nella narrativa francese contemporanea, a cominciare dallo scrittore più discusso, Michel Houellebecq; ma in Enard il tono, che è spesso lamentoso, rasenta a volte forme di patetismo compiaciuto e consapevole, risolvendosi più nello scoramento, nel rimpianto, che non in un pessimismo vero e proprio. È il tono che tiene costantemente anche il Mathias dell’Alcol e la nostalgia, in particolare quando guarda alla propria giovinezza, quando parla di «una libertà che in realtà non avevo mai conosciuto, se non nei libri, che per un adolescente sono ben più pericolosi delle armi, poiché avevano scavato in me desideri impossibili da realizzare, Kerouac, Cendrars o Conrad mi facevano venire voglia di un’eterna partenza, di amicizie indissolubili nate lungo la strada, e di sostanze proibite per arrivarci… non avevamo più una rivoluzione, ci restava l’illusione del viaggio, della scrittura e della droga».
Enard non è un vero pessimista proprio come non è un vero viaggiatore. L’elmento che più accomuna la sua Transiberiana a quella di Cendrars è la forte presenza della morte. Parliamo però di presenze molto diverse e non potrebbe essere altrimenti; un secolo non passa invano. La morte che vediamo scorrere nel finestrino del poema di Cendrars è quella della Russia del 1905, devastata ma anche infiammata dalla rivoluzione, accesa dalle forme e dai colori avanguardisti di Sonia Delaunay. Una morte che si fa sempre più evidente man mano che il convoglio avanza verso est, i proporzioni epiche, con un che di vitale, punteggiata dalla ripetuta domanda di Jehanne, compagna di un viaggiatore giovanissimo: «Siamo tanto lontani da Montmartre?»
In compagnia della morte In Enard, invece, la morte non è un più un elemento del paesaggio e non ha nulla di glorioso; sale sul treno in forma di cadavere di un amico, si sostituisce a Jeanne che è rimasta a Mosca per abbandonarsi a un nuovo svago, una pratica masochistica, restare sospesa con tre uncini infilati nella pelle della schiena. Dunque, è soltanto la morte a tenere compagnia all’uomo ormai fatto che odia i viaggi e la cui meta è perdersi in Siberia. La stessa meta verso cui sembrano tendere i monologhi interiori di Enard, nel loro incedere ossessivo e tuttavia suadente. Non resta che da chiedersi se non sia proprio questo il vero viaggio del nostro tempo, l’unico ancora concessoci in letteratura: la vanità di cercare sapendo che non troveremo.
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