Verso la foce del Po, tra nucleare, rifiuti e abusi edilizi
Reportage In viaggio da Piacenza a Comacchio, sulle orme dei racconti di Gianni Celati. Per raccontare le trasformazioni di un pezzo di pianura padana
Reportage In viaggio da Piacenza a Comacchio, sulle orme dei racconti di Gianni Celati. Per raccontare le trasformazioni di un pezzo di pianura padana
Terreni piatti, strade di campagna lungo gli argini, qualche villa a pochi metri dal fiume e diversi cartelli che accolgono chi arriva in macchina: «Welcome to Piacenza», recita la scritta sopra l’immagine dei salumi tipici del posto. A prima vista poco del paesaggio della provincia è cambiato rispetto a trent’anni fa: la bassa piacentina sembrerebbe rimasta ferma agli anni Ottanta, quando lo scrittore Gianni Celati decise di percorrere i luoghi intorno al Po – tra le province di Piacenza, Mantova, Ferrara e Ravenna – per raccontarne i paesaggi, i suoni e le voci, verso la foce del fiume che attraversa il nord Italia, scrivendo i quattro racconti che costituiscono il libro Verso la foce (Feltrinelli, 1989).
Anche le centrali elettriche e nucleari ci sono ancora, con le torri che si vedono a chilometri di distanza: «un paesaggio con centrale nucleare», lo definiva Celati. Una di queste, la centrale di Caorso, era – prima del blocco a seguito del disastro di Chernobyl – il più grande impianto nucleare d’Italia.
Uno degli ingegneri che ci lavorava – che vuole rimanere anonimo – ricorda quell’aprile dell’86, quando il disastro della centrale sovietica iniziò a creare allarme sul nucleare anche in Italia: «per alcuni giorni non sapemmo niente del disastro: l’Unione Sovietica era in transizione e non c’era trasparenza. L’allarme venne lanciato dalla Svezia, le cui centrali avevano rilevato livelli anomali di radioattività, come avvenne, qualche giorno dopo, anche a Caorso».
L’ATTIVITÀ DELLA CENTRALE è durata solo sei anni: «la centrale – continua l’ingegnere mentre percorriamo la strada che da Piacenza arriva a Caorso, un piccolo paesino di poco meno di 5000 abitanti – si è fermata nell’ottobre del 1987 per ricaricare il combustibile. All’inizio dell’88 era pronta per ripartire ma non c’è stato il benestare del Ministero dell’Interno e così è rimasta ferma per anni, fino a che, nel 2011, è iniziata la dismissione».
Quella di Caorso è solo una delle centrali che si vedono mentre si attraversa il territorio piacentino: le prime vennero costruite con i fondi del Piano Marshall per la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale, altre negli anni Sessanta e altre ancora, quelle a turbogas, negli anni Settanta.
NON TUTTI, PERÒ, VEDEVANO SOLO GLI ASPETTI POSITIVI: il 26 aprile 1987, a un anno dal disastro di Chernobyl, più di cinquantamila persone fecero una catena umana dall’aeroporto di San Damiano – dove di lì a poco sarebbe arrivato uno stormo di cacciabombardieri Tornado, studiati anche per trasportare ordigni atomici – alla centrale di Caorso. La richiesta era quella di smantellare il nucleare e le industrie di armamenti. La centrale non è più tornata in attività, ma i cacciabombardieri hanno continuato ad operare, con base a San Damiano, fino al 2016, dopo aver svolto missioni, tra le altre, nella prima guerra del Golfo, nell’operazione Desert Storm in Kuwait e nell’operazione Allied Force in Jugoslavia.
Anche nel mantovano il Po riflette le sagome delle torri delle centrali, mentre lungo il fiume scorrono rifiuti e una schiuma biancastra che ricopre quasi tutta la superficie. Nel porto fluviale di Sermide, un piccolo paese medioevale in provincia di Mantova, ci sono diverse barche da pesca ormeggiate, ma nessun pescatore.
«L’uomo con calzoni di gomma – scriveva Celati, raccontando gli incontri lungo la sua esplorazione dell’argine – parla con tono pacato dell’inquinamento del fiume e dei pesci che si pescano; dice che per lui quel fiume non è più lo stesso da quando sono scomparsi gli storioni (per effetto degli scarichi industriali)».
SUL FIUME I RIFIUTI CONTINUANO A SCORRERE VELOCI. Il paesaggio è desolato. Secondo i dati dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, nel Po c’è una diffusissima contaminazione da pesticidi, presenti in oltre il 70% dei siti delle acque superficiali (per il 32,6% superiori ai limiti sulla concentrazione degli inquinanti) e in oltre il 40% di quelli delle acque sotterranee (per l’8,7% superiori ai limiti): «Siamo in presenza di una situazione inaccettabile anche sulla base del confronto con i limiti di legge», si legge nel rapporto pubblicato nel 2017. Tra le sostanze più inquinanti ci sono l’atrazina, un erbicida vietato in Italia definitivamente dal 1992, la simazina revocata dal 2005 e l’alaclor dal 2006.
IL PO DIVENTA LA VENA CHE PORTA NON SOLO DETRITI, ma anche rifiuti e inquinanti. Ed è impossibile che siano solo rifiuti provenienti dalle abitazioni: «Ci saranno delle discariche abusive lungo il fiume, non sono mica i rifiuti di chi fa i picnic quelli che vediamo sul Po!», dice l’unica signora incontrata nella piazza centrale di Sermide, seduta su una panchina davanti alla chiesa.
«Uscito dal bar sono stato accostato dal vecchio in motorino, che mi indicava un tale seduto in disparte, e mi ha sussurrato: “È un egiziano. Ne sono già arrivati altri tre”». Lo scrive Celati, quando racconta il suo viaggio nelle zone della grande bonifica ferrarese. Oggi nella provincia di Ferrara i tassi di immigrazione sono molto diversi rispetto a trent’anni fa: a Portomaggiore, il comune della provincia con la percentuale più alta, sono 1488 i cittadini stranieri su 11756 residenti totali, il 42% dei quali provenienti dal Pakistan.
PORTOMAGGIORE SOMIGLIA A UN QUALSIASI TRANQUILLO paesino di provincia della Bassa Padana, con la sua piazza centrale che si riempie la domenica di anziani, bambini e famiglie. Ma non tutti sono d’accordo su questa tranquillità. «Io qua vedo passare tanti stranieri a gruppi, che, anche se non fanno niente, fanno un certo effetto», dice una signora appena fuori dal cimitero. «Quando ti vedi arrivare quattro o cinque persone adulte, magari pakistani, che non conosci e di cui non capisci la lingua, fa un certo effetto, a maggior ragione dopo tutto quello che leggiamo sui giornali: viene sempre un brivido quando passano, anche se sai che questi non ti fanno niente. Si spera almeno». Per lei, rimangono stranieri.
Sulle panchine della piazza centrale due anziani guardano i tre nipoti giocare: i nonni non parlano italiano, fa da intermediario il nipote più grande, avrà sette o otto anni, ma è timido e risponde «non lo so« a qualsiasi domanda, poi ride. In un inglese stentato il nonno racconta che sono pakistani e lui e sua moglie sono in Italia da appena una settimana, mentre i nipoti sono nati e cresciuti a Trento. «It’s a good country!», dice.
Poco più avanti un ragazzo pakistano parla con due connazionali. È in Italia da dieci anni, a Portomaggiore da tre, ma in zona non ha mai trovato lavoro e quindi fa il pendolare tra il paese e Bologna tutti i giorni. «Anche se sto bene, non voglio vivere qua, ma devo: in Pakistan c’è la fame».
A UNA TRENTINA DI CHILOMETRI da Portomaggiore c’è Codigoro, un comune di poco meno di 12 mila abitanti sulle rive del Po di Volano. Nel 2017 la sindaca Alice Zanardi, candidata in una lista civica sostenuta dal Partito Democratico, ha affermato che avrebbe alzato le tasse a chi avesse ospitato profughi.
Secondo gli ultimi dati dell’Istat nel 2018 i cittadini stranieri di Codigoro erano il 7,8% della popolazione. Ma, a differenza di quanto riferito dalla sindaca, questo non sembra essere un problema per i codigoresi.
In uno dei bar centrali, tra flipper, biliardi e manifesti di sagre del territorio, tre signori affermano che a Codigoro la situazione è sempre stata tranquilla. «Qua siamo messi bene, non c’è nessun problema», dicono in dialetto, per poi mettersi a parlare dell’unica vicenda che sembra preoccuparli: una multinazionale turca che ha messo in cassa integrazione diverse persone.
Della stessa idea è un signore che incontriamo poco più avanti, mentre fuma una sigaretta fuori dal portone di casa: «La situazione mi sembra molto tranquilla: gli stranieri che vivono qua si stanno integrando bene». Accenna un sorriso e rientra in casa.
«La profezia di Celati si è avverata», afferma Marino Rizzati, presidente del Circolo Legambiente Delta del Po.
«Tutti i luoghi faranno la stessa fine, diventeranno solo astrazioni segnaletiche o progetti tecnici di esperti. Da queste parti creeranno un grande parco turistico, e i turisti verranno in pullman a vedere non so cosa, relitti di vecchie tristezze, cartelli propagandistici, luoghi che non sono più luoghi». Lo scrive Gianni Celati nell’ultimo capitolo di Verso la foce, e aggiunge: «Qui intorno hanno massacrato le spiagge, trasformato la zona in un deserto di domicili estivi, una catastrofe di paccottiglie ovunque».
Siamo a Comacchio, dove, secondo Legambiente, con la scusa di portare soldi al territorio c’è stato un consumo di suolo esagerato: «Abbiamo sette lidi – continua Rizzati – che si animano per tre mesi all’anno, per il resto è un deserto».
NEL TERRITORIO DEI LIDI COMACCHIESI – lungo la costa, tra le foci del fiume Reno e il Po di Volano – ci sono diversi abusi edilizi. Tra il Lido di Pomposa e il Lido degli Scacchi c’è il Regina Mare, un complesso di oltre 300 immobili pensati come seconde case per le vacanze, costruito su oltre sei ettari di terreno. Per la costruzione del villaggio turistico tre persone sono state accusate di mancato rispetto dei piani ambientali: la sentenza di primo grado li ha condannati, ma la Corte d’Appello ha annullato la sentenza, assolvendoli con formula piena. Ora è tutto fermo: una buona parte delle case era già stata venduta ma è sempre vuota, tranne in alta stagione, un’altra parte è ancora da costruire. Sembra di essere in un villaggio fantasma. Non c’è nessuno.
«Dal secondo dopoguerra – afferma Rizzati – quest’area è stata presa d’assalto da chi vuole investire e da chi, investendo, depreda il territorio».
E così, la continuità tra mare, spiaggia, pineta e laguna è stata definitivamente spezzata, non solo dall’argine, costruito per motivi di sicurezza in caso di rotta del Po, ma anche e soprattutto da una cementificazione continua.
«Se tutto questo fosse un ragionamento scontato – scriveva Celati – mi basterebbe tirar fuori una di quelle grosse parole (sociologiche o altre), che spiegano con una definizione le “ragioni” del mondo com’è».
DALLA PROVINCIA DI PIACENZA AL DELTA DEL PO, prima di arrivare alla foce, il fiume trascina con sé storie, voci, contraddizioni, spesso difficili da raccontare. Tra inquinamento, turistificazione, cementificazione, tra costruzioni e nuovi insediamenti, tra lavori che vivono grazie al fiume e lavori che muoiono, distrutti da profitti maggiori o da cambiamenti fisici.
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