Alias Domenica

Versi ipnotizzati dalla forma

Wallace Stevens La riproposizione di Aurore d’autunno di Wallace Stevens nella traduzione di Nadia Fusini (Adelphi «Biblioteca», pp. 273, euro 23,00) – a ventidue anni dall’edizione uscita da Garzanti – mette a […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 30 marzo 2014

La riproposizione di Aurore d’autunno di Wallace Stevens nella traduzione di Nadia Fusini (Adelphi «Biblioteca», pp. 273, euro 23,00) – a ventidue anni dall’edizione uscita da Garzanti – mette a disposizione di una nuova generazione di lettori uno dei capisaldi della poesia del Novecento non solo americano. Uscita nel 1950, quando il poeta-assicuratore di Hartford Connecticut aveva 71 anni, The Auroras of Autumn è stata definita la raccolta di Stevens «più difficile da comprendere, più dura da difendere», e infatti quando apparve suscitò le proteste persino dei fedelissimi. L’anziano ma perfettamente composto poeta qui raggiunge un vertice di potenza impassibile, di meditazione poderosa. Nell’America dell’esistenzialismo di un Lowell, della caccia alle streghe di Washington e degli intellettuali impegnati di New York, Stevens scrive come se fosse ancora nella Nuova Inghilterra dei Padri Pellegrini o di Nathaniel Hawthorne con la sua immensa A scarlatta proiettata nel firmamento. Alza lo sguardo verso il polo e vi vede l’aurora boreale. Da ciò il titolo misterioso e allitterante, che risponde musicalmente al titolo della raccolta precedente, Transport to Summer, quella degli anni della guerra, anch’essa piuttosto tangenziale all’attualità.

Stevens era un maestro delle forme e amava configurare i suoi poemi in strutture regolari. Anatema per le nuove generazioni che formate da maestri dell’autentico come Pound e Williams, sostenevano che la forma non poteva essere imposta dall’esterno ma andava creata dalla necessità espressiva. Per Stevens invece la simmetria è un modo di ispirare e di cercare. E dunque il poema eponimo che apre la raccolta, Aurore d’autunno appunto, consta di dieci sezioni di otto terzine sciolte, cioè 240 versi. «Qui vive il serpente, l’incorporeo. / D’aria è la testa. Sotto la punta a notte / occhi s’aprono e ci fissano in ogni cielo». Così inizia il viaggio misterico (è proprio il caso di dire). Il serpente sembra una metafora dell’aurora, che si presenta sinuosa con i suoi colori cangianti. Comunque è un mondo gelido, sotto le stelle-occhi. La seconda terzina si interroga su questa visione: «O è un altro dimenio da dentro l’uovo, / un’altra immagine in fondo alla caverna, / un altro incorporeo dopo che il corpo s’è spogliato?». Una condizione di incertezza.

Stevens, l’uomo compito, alto e florido, sempre in giacca e cravatta, capelli corti ben curati, è insieme Adamo che guarda il cielo e lo interroga. Medita lentamente e il risultato dei suoi pensieri sono queste parole chiarissime e impenetrabili. Questa prima sezione si conclude infatti ritornando al mondo primigenio, all’America degli aborigeni: «Le sue meditazioni tra le felci, / quando si muoveva appena per assicurarsi del sole, // ci fecero di lui non più sicuri. Vedevamo nella testa, / perla nera contro la roccia, l’animale screziato, / l’erba mossa, l’indiano nella prateria».

Insomma un simbolo antichissimo, il serpente che è inizio e fine, immortale, declinato in una poesia laica ma da una tensione che ha del religioso. Anche se la religione di Stevens non ha nulla dell’estasi di santa Teresa o dello strazio di uno Hopkins, ma è piuttosto il rito impassibile che tutto ingloba, il principio della ripetizione del rosario e delle litanie della Vergine. Curioso, perché Stevens era protestante di formazione e agnostico per scelta. Egli ripete spesso che in assenza di un Dio è compito del poeta fornire all’uomo riti e miti, «finzioni». Però questi sono appunto fondati sulla potenza ipnotica della forma, la variazione nel sempre uguale. E infatti in una tarda magnifica poesia, Per un vecchio filosofo a Roma, Stevens abbraccia nell’immaginazione la Roma barocca (che non vide mai) e le campane che rendono udibile il mistero.

Il poeta deve amare il mondo, i suoni, le parole. La scrittura di Stevens è tutto un intreccio di ripetizioni e bisticci di ardua decifrazione e traduzione. D’altra parte è una lingua in qualche modo di grado zero, di assoluta semplicità, salvo che per intenderla bisogna lasciarsela scivolare addosso nelle sue volute ampie e lente. È come entrare nella Chiesa del Gesù a Roma, in una penombra di arcate, santi, cieli, cupole… «Il tono della voce – avverte Fusini – non è acuto, ma basso: e non sempre il canto sbocca in verso, spesso rimane dura prosa». Però qui Fusini traduttrice ha mano felice nel trovare soluzioni che rispettino la nudità dell’originale ma insieme lo rendano dinamico, pastoso. Se no veramente davanti a questo Omone grande e rosso che legge (titolo di una poesia che è forse un autoritratto) resteremmo ancora più interdetti.

Così i trentadue testi lunghi e brevi raccolti in Aurore d’autunno presentano un percorso arduo ma allettante per il lettore italiano. Dalla sinfonia iniziale sul serpente e i famigliari (c’è nella raccolta un senso molto mediato di un ritorno a immagini dell’infanzia), con la visione di un universo gelido e pauroso dove tutto si consuma, si passa alla curiosa Pagina da un racconto: un certo Hans sta su una spiaggia polare accanto a un fuoco di sterpi, nei pressi c’è una nave incagliata da cui degli uomini scendono con torce. E si procede con testi corti, commossi come l’Omone rosso e La solitudine delle cateratte, o sillogizzanti alla maniera paradossale cara al nostro incredibile poeta: «Quanto pazzo doveva essere per dire: ‘Osservava / un ordine e dunque gli apparteneva’? / Osservò l’ordine del cielo nordico…» (Un brutto momento). Fra parentesi, le poesie di Stevens sono sempre in terza persona. O quasi sempre, visto che sopra abbiamo incontrato un «noi» che osservava il serpente che muove l’erba e medita. Tutto in Stevens medita.

Fra le vette (tutte da scalare) della raccolta è il poemetto Il gufo nel sarcofago, una riflessione sull’aldilà suggerita dalla scomparsa di un amico mecenate, cui seguono titoli stravaganti come San Giovanni e il Mal di Schiena e Risposta a Papini. Sì, proprio Giovanni Papini, ma credo che a Stevens piacesse soprattutto il nome che a un orecchio come il suo suona stravagante. Quella che lui chiamava la gioia della lingua non viene mai meno. E basta appunto leggere questi titoli, come tutti i titoli dell’opera poderosa raccolta nei Collected Poems, per sintonizzarsi sulla sua lunghezza d’onda così particolare e apparentemente così avulsa da tutto ciò che gli (ci) stava intorno.

Questa distanza stratosferica di Stevens è un conforto in un’età di princisbecco, è fuori dal linguaggio e dal cicaleccio, non c’entra, ci guarda misteriosa come una Gioconda impenetrabile: la stessa realtà, non ciò che se ne dice, o si dice. Un altro discorrere. Leggere Stevens, leggere i Sonetti di Shakespeare, o Petrarca. Che sollievo. D’altra parte l’inattualità di Stevens gli ha anche giovato a livello accademico e a essa si deve in parte la sua fortuna degli ultimi decenni. Non è scomodo come un Eliot o un Pound, anche se era un repubblicano non meno conservatore dell’amica Marianne Moore, ma sempre con una distanza che dava per scontata la sua posizione: non perdeva tempo o energia a schierarsi.

In questa nuova edizione delle Aurore Fusini ha aggiunto utilmente alcune lettere, dichiarazioni e aforismi («L’immaginazione non aggiunge nulla alla realtà») che completano il ritratto dell’«omone rosso» – in realtà piuttosto blu siderale e algido, nutrito da una passione intensissima e trattenuta per l’idea della poesia. Poesia che, recita un suo altro aforisma, «è una salute». Aurore d’autunno: un libro che fa bene.

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