Il più imperturbabile cronista del male incarnato dal lager sovietico, l’autore dei Racconti della Kolyma, nasce alle lettere russe come poeta, alla fine degli anni Venti, e questa vocazione, coltivata nelle condizioni più estreme, non può che rivelarsi salvifica per lui. Mentre si trova ai lavori forzati nelle miniere d’oro della Siberia nord-orientale, Varlam Shalamov annota con mezzi di fortuna frammenti di poesie che avranno molte varianti – tante quante saranno le occasioni di tornarci sopra con la memoria negli anni a venire. Ne esce ora una silloge, Quaderni della Kolyma Poesie (1937-1956), Giometti&Antonello, pp. 149, € 21,00), tradotta da Gario Zappi, che con l’opera di Shalamov si confronta fin dal 1990. L’antologia, accuratamente trascelta da un corpus più ampio, non ignoto al lettore italiano (nel 2006 era uscito da La Casa di Matriona Il destino di poeta, a cura di Angela Dioletta Siclari), è arricchita da una galleria fotografica e da materiali critici.

Scheggiati in lamine acuminate, destituiti di ogni orpello, inscritti in orizzonti vastissimi e angusti al tempo stesso, i versi qui raccolti ci offrono una chiave aggiuntiva per la comprensione del mistero della sopravvivenza fisica, etica, intellettuale del loro autore nella morsa della sua dolorosa vicenda. Il gulag come tema non si impone con crudezza ingombrante, in queste pagine, anche se è in agguato in ogni piega: nell’incombere della morte, nella crudeltà degli sfondi ghiacciati o fangosi che ci vengono incontro, nell’amaro fluire del tempo in assenza di libertà. Il pericolo è di lasciarsi sopraffare dalla ferocia, o di inselvatichire nella solitudine più assoluta: «E con la costola sporgente,/ tendendo la pelle,/ non sarà in grado di stabilire/ la differenza tra il bene e il male./ D’improvviso, lavatosi all’alba/ con acqua sorgiva,/ leverà lo sguardo alla montagna/ e ululerà come un lupo…». Ma a prevalere è lo stesso spirito che muove il narratore dei Racconti, la stessa volontà di non abdicare alla dignità umana, sempre teso a cogliere il senso ultimo di ogni esperienza, il suo estremo nucleo di verità, e allacciando con la natura un rapporto quasi sciamanico (tratto presente nella sua genealogia, come racconta il cognome).

Nel luglio del 1952, liberato dal lager ma ancora al confino nella regione della Kolyma, Shalamov fa pervenire a Pasternak due taccuini di sue liriche, in nome della sconfinata venerazione nutrita per i suoi versi, dei quali sostiene di essersi alimentato per venti anni. Il severo giudizio del poeta di Peredelkino, che ne elenca le debolezze (la propensione al calembour, la rima inesatta, l’artificiosità verbale – difetti tanto più gravi in quanto ascritti alla sua stessa influenza) non intimidisce Shalamov, che sa bene di trovarsi «sulla soglia della poesia», ma non indietreggia e lavora anzi con rinnovato vigore ai suoi versi, sviluppando al contempo una teoria della rima come «strumento di ricerca» e divinazione istantanea, catalizzatore del pensiero creativo.

Morto Pasternak nel 1960, l’adorazione si volge in una vaga forma di rancore, che non cancella tuttavia gli echi di una filiazione devota e diffusa. Pasternakiana è la fiducia che Shalamov ripone negli alberi, nel «parlottìo del fiume a mezzanotte», nella capacità della neve di «irretire le ali indebolite degli uccelli». E da chi se non da Pasternak gli viene la constatazione che la terra – il respiro della foresta di pini – «risana come un farmaco taumaturgico», o il bisogno di riecheggiare Amleto («Leggo Shakespeare in una casa di vecchi credenti./ Chiose ai sorrisi, minacce alla sorte»/ (…) «le nubi come cammelli dondolano le gobbe/ sulla quieta terra, terra di Danimarca»). Shalamov poeta è tutto racchiuso nel sogno di incastonare i suoi versi nella roccia e nei fossili, in una «cripta di carta», nella «madreperla impietrita», riversandoli tra tajga e infinito dal «calamaio del sangue sempre più scuro», – andando oltre i limiti e la desolazione della sua epoca inclemente.