Versi di metamorfosi, di perdite e lingue viventi
POESIA A proposito di «Corpi abitati», di Alma Spina (peQuod). Oggi alla Libreria Tuba di Roma (ore 19) la presentazione della silloge in presenza dell'autrice
POESIA A proposito di «Corpi abitati», di Alma Spina (peQuod). Oggi alla Libreria Tuba di Roma (ore 19) la presentazione della silloge in presenza dell'autrice
«Ho un feticcio, un piccolo segreto / e quale luogo migliore per dirlo / se non qui, che non lo dico: / mi piace abusare della parola morte». Si apre così una delle poesie che compongono l’ultima silloge poetica di Alma Spina dal titolo Corpi abitati (peQuod, pp. 57, euro 14). La sezione di cui fanno parte i versi è «Esuvie» e con una certa quantità di spoglie abbiamo in effetti a che fare, principiando la lettura. La muta di alcuni animali, cui il termine esuvie rimanda, è qui membrana anche vegetale, così del resto umano ulteriore a indicare una soggettività che osserva e si accorge.
COME in una tassonomia che non indica niente di classificatorio bensì tutto di preparatorio per altrettante metamorfosi, compresi distacchi e inventari, Alma Spina dispone a una precisa quiete. Attraversandola, la misura di cui rispondono i Corpi abitati è a un tempo urbana, psichica e esattamente carnale, dove questa ultima accezione prevede che lo sguardo poetico segua il movimento, visibile e non: dalla semplice fenomenologia posturale a ciò che accade nell’incontro con sé e l’alterità.
Attivista femminista e lesbica, Alma Spina vive e lavora a Genova, città in cui intreccia impegno e attività poetica: la sua prima raccolta in versi, Rovi, è del 2018; soprattutto collabora con l’associazione culturale Alle Ortiche occupandosi della rassegna «Rapsodie» e della rigenerazione di una parte dell’ex vivaio comunale genovese. La parola di Spina non può dunque prescindere dal partire da sé, come esperienza entro cui il mondo sembra praticabile. Desertificato, a tratti, eppure in procinto di germogliare o compostare, di sentire che la misura, quando non c’è lo sperdimento di lutti incalcolabili, è toccare il già mescolato: «sto nelle pietre, nel posto dei duri / prima che vengano, lente, le morbidezze» e più avanti «Mi prendo da dentro la bocca la guancia / con le dita: mi stringo in un abbraccio piccolo».
ALCUNI DEI VICOLI genovesi, tra bisbigli di cani vecchi e ombre di morti e vivi che riacciuffano le soglie di una porta, fanno da bussola a spazi più vasti: isole e vulcani, si sta dentro o ancora una volta si osserva. Come si abitano? Da chi sono parlati i luoghi? A tal proposito, sembra che Spina risponda al vagabondare di erbe e piante selvatiche – che creano comunità di cura e nuove sovversioni botaniche – con un corpo che a elencarlo nelle singole parti si può ancora immaginare intero. Il punto di rottura, in cui le secche dimenticate di infanzie e abbandoni si risvegliano riannodandosi, sta però nel piacere. Si diventa una salamandra oppure, talvolta, si è solo inermi, al cospetto di una lingua che si avvicina mentre «sboccia nella pancia un grosso fiore. È tempo di annaffiature». E di congedare la morte, per attendere altre rese d’amore.
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