Emanuele Cavalli, “Cavallini sfocati”, Firenze, 1956-’60

 

Soprattutto nel grande pubblico è invalsa l’abitudine di guardare alla cosiddetta «Scuola romana» come a un coacervo di pittori e scultori privi di una identità definita, omologati sulle istanze del naturalismo e restii ad abbandonare tecniche artistiche tradizionali. L’ambigua definizione di «École de Rome» – coniata dal critico Waldemar George nel 1933 in occasione della collettiva parigina di Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi, Emanuele Cavalli ed Ezio Sclavi – oltre a essere stata estesa a un raggio di autori forse troppo ampio, ha portato a livellare personaggi eterogenei che, seppur uniti da percorsi e riferimenti comuni, meritano di essere valutati nella loro specificità.
Come si può accomunare la visione siderale e fiamminga di Antonio Donghi con la strabordante emotività barocca di Scipione? E, ancora, come è possibile porre sotto lo stesso vessillo il trasporto espressionista di Mario Mafai con il formalismo estetizzante di Guglielmo Janni? A uno sguardo attento anche lo scrupolo luministico che, alla metà degli anni trenta, ha fatto convergere la triade Cagli, Capogrossi, Cavalli è stato declinato in maniera molteplice sulla base delle sensibilità individuali.
Proprio Emanuele Cavalli (1904-’81) è la figura chiave su cui ruotano ben due appuntamenti espositivi in corso a Roma, uno organizzato dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, l’altro dal Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea dell’Università La Sapienza.
Le due mostre sembrano concordi nella necessità di decostruire – e verificare su basi filologiche – la classificazione di «tonalista» che, in modo spesso aleatorio e totalizzante, è stata applicata al pittore. L’unicità di Cavalli è infatti restituita tenendo presente, da una parte, gli scambi intrattenuti con i comprimari della scena artistica romana di primo Novecento, dall’altra, sondando aspetti «laterali» della sua attività creativa. Inoltre, la dorsale comune su cui si strutturano entrambe le rassegne è costituita dal meticoloso, e non scontato, scavo documentario.
Già da tempo la GNAM ha avviato una meritevole politica di acquisizione di archivi d’artista e, in linea a tale orientamento, ha ritenuto opportuno valorizzare il Fondo Emanuele Cavalli – recentemente donato dagli eredi del pittore – con una mostra ad hoc ordinata da Manuel Carrera. Emanuele Cavalli e la Scuola romana: attraverso gli archivi (fino al 20 marzo), ricostruisce in maniera sintetica ma efficace la stagione aurea – gli anni trenta e quaranta – di un autentico maestro dell’arte italiana che, a causa della sua strenua fedeltà alla figurazione e al «bel comporre», ha goduto di una altalenante fortuna critica. Dagli anni cinquanta, molti degli animatori della Scuola romana non convertitisi all’Informale vennero improvvisamente bollati come inattuali. È grazie alla pionieristica «riabilitazione» di autori attivi tra le due guerre proposta da Carlo Ludovico Ragghianti nella mostra fiorentina Arte moderna in Italia 1915-1935 (1967) e, in seguito, grazie alla monografia su Cavalli di Fabio Benzi (1984), che si è potuto comprendere il valore di un pittore aderente al dato fenomenico ma, allo stesso tempo, capace di trascendere il realismo. L’esposizione alla Galleria Nazionale lascia emergere con intelligenza la complessa personalità di Cavalli facendola dialogare con le opere dei compagni di strada – Capogrossi, Melli, Pirandello – e vivificandola attraverso l’immediatezza delle testimonianze d’archivio. Il dato iconico-visuale dei dipinti – in mostra sono presenti sia le prove giovanili eseguite sotto l’influsso di Felice Carena, sia capolavori quali Il solitario (1937) carichi di struggente lirismo – corre parallelo all’eloquenza di documenti autografi come stralci di lettere e appunti che non solo permettono di cogliere le coordinate di un itinerario umano e professionale destinato a incidere sugli sviluppi dell’arte romana successiva – paradigmatico il foglio con le firme di Mafai, Mazzacurati e altri nomi illustri accorsi a visitare la collettiva tenuta con Capogrossi e Di Cocco (1927) – ma lasciano anche individuare i capisaldi di una poetica nutrita di riferimenti all’Antico e di suggestioni esoteriche. Cavalli era ben addentro alla teosofia e molti suoi lavori intrisi di nitore quattrocentesco sono costellati da iconografie iniziatiche (figure velate, vestizioni). Un sottile alone onirico si percepisce anche nell’ultima sezione della mostra dove sono raccolte alcune fotografie di Cavalli che aiutano a tratteggiare la versatilità di un personaggio teso a sperimentare diversi mezzi espressivi.
Da queste premesse prende le mosse l’esposizione Noi e l’immagine. La fotografia di Emanuele e Giuseppe Cavalli curata da Arianna Laurenti, Ilaria Schiaffini e Alessia Venditti al Museo Laboratorio della Sapienza (fino al 9 marzo). La vivace istituzione universitaria che ospita la prima tappa della mostra – dal 19 marzo visibile presso la Biblioteca comunale di Lucera, città natale dei fratelli Cavalli – sottolinea il valore scientifico di un’indagine compiuta sondando capillarmente gli archivi dei due artisti.
La presentazione congiunta dell’opera dei fratelli Cavalli – già al centro di una recente mostra a Senigallia – è stata portata avanti privilegiando lo studio di materiali compositi (fotogrammi, carteggi) che hanno permesso di leggere con una diversa consapevolezza i rapporti tra Emanuele e il gemello Giuseppe (1904-’61), originale interprete e teorico della fotografia italiana del Secondo dopoguerra. La loro interrelazione, come si evince dall’analisi degli scatti, fu comprensibilmente molto stretta. Nelle fotografie allestite in studio i due sembrarono prediligere atmosfere sospese e perturbanti evocate tramite il libero assemblaggio degli stessi identici oggetti. Il serrato rigore compositivo degli scatti di Giuseppe – fautore assieme al gruppo «La Bussola» di un’estetica antidocumentarista percorsa degli umori dell’avanguardia europea – dovette incidere sull’avvicinamento al mezzo fotografico di Emanuele.
Tuttavia, la prossimità al lavoro del fratello non assunse mai i connotati di una imitazione. È merito delle curatrici evidenziare come anche il temperamento di Emanuele avesse in certi frangenti sorretto la visione di Giuseppe, specie nella resa di «nature morte» immortalate con un’aura surrealista. Il fratello pittore, da parte sua, non concepì la fotografia in funzione ancillare all’attività artistica ma fu precocemente attratto dalla riproduzione meccanica della realtà. In mostra è presente una lettera del 1939 inviata da Vinicio Paladini – specialista del fotomontaggio d’impronta dada-futurista – in cui si allude alla dimestichezza di Emanuele con la camera oscura. Il suo approccio alla fotografia andò quindi al di là del dilettantismo e, come evidenziato da Ilaria Schiaffini nel saggio in catalogo edito da De Luca, egli poté approfondire le potenzialità del mezzo soprattutto nella Firenze degli anni cinquanta gravitando attorno al gabinetto fotografico della Soprintendenza e alla galleria Vigna Nuova.