Si può scrivere un romanzo autobiografico senza parlare di sé? «Siamo al paradosso» risponderebbe di getto uno dei personaggi di Niente di vero, il quarto romanzo di Veronica Raimo, edito da Einaudi (pp. 176, euro 18), ora candidato allo Strega.

È CERTO che inoltrandosi tra le pagine di questo memoir, punti dalla verve implacabile della scrittura, scopriamo tanti aspetti intimi di Veronica, protagonista e voce narrante. L’autrice ci parla di infanzia, sesso, viaggi, legami, lutti, gioie e dolori di una quarantenne nata e cresciuta a Roma. Eppure la sintesi resta faticosa: Veronica, nella sua interezza, si visualizza con difficoltà.

Appaiono invece, alternandosi sulla scena, diverse sue declinazioni, contraddistinte da vari soprannomi che le vengono attribuiti nel corso della vita. Veronika, Verika, Oca, Scarafona, Smilzi.

Raimo confessa di soffrire della sindrome della sconosciuta. Persone già incontrate in precedenza, falliscono sistematicamente nel riconoscerla e si ripresentano come se fosse la prima volta. Apparentemente c’è sempre un motivo valido, un piccolo dettaglio che confonde: «Ti sei abbronzata?». «Hai cambiato i capelli?». Anche sua madre spesso la scambia per un’altra.

Questa difficoltà di individuazione è ciò che accade anche a chi legge. Ed è questa la premessa, quasi pirandelliana, che rende il libro un’anomalia nel suo genere. Tra la maschera che decidiamo di mostrare al mondo e quella che gli altri ci affibbiano, c’è uno spazio inconoscibile.

Niente di vero è un’autobiografia schierata contro la sacralità del sé, contro la sovranità assoluta dell’esperienza soggettiva. La protagonista si rapporta agli altri, aggiustando il tiro di volta in volta, facendo dialogare i suoi tentativi di definirsi con le proiezioni distorte altrui, implicite in ogni relazione.

L’autrice non cerca mai di liberare il campo da queste sovrapposizioni, svelando che proprio quegli equivoci, quei mille strati indistinguibili di rappresentazioni parziali e fallaci, sono la materia interessante, nella vita e nella letteratura.

Di pirandelliano, oltre alle premesse filosofiche, ci sono anche il ricorso alla comicità e l’adattabilità teatrale del testo. I personaggi e i dialoghi sono infatti la potenza, deliberata, di questo libro.

Raimo descrive le figure importanti della sua vita, a partire dai familiari, rivelandone tratti nevrotici e grotteschi, senza mai perdere l’amore dello sguardo. Il fratello primogenito parafulmine di attenzioni e aspettative genitoriali, la madre ansiosa ostinatamente invadente e distratta, il padre alienato che resiste al caos costruendo pareti divisorie in casa. Le derive assurde a cui tutti, prima o poi, cedono.

Se alcuni romanzi autobiografici assomigliano a delle lunghe sedute di psicoterapia, qui lo stile della narrazione rimanda a una telecamera angolare puntata su un caotico pranzo domenicale.

AL TAVOLO ci sono amiche, sconosciuti, genitori, zii, fidanzati, amanti, fratelli, vicini di casa, persone incontrate una sola volta. Seppur citati in momenti diversi, la sensazione è che siano sempre tutti lì, sullo sfondo, coautori a volte inconsapevoli di una storia personale, a ricordarci che in fondo non siamo altro che la somma di tante relazioni.

Il tempo è quello episodico e dilatato di quando nel pieno di un trasloco ci si imbatte in una vecchia scatola di fotografie.

Veronica Raimo, il cui talento è già noto a chi ha avuto occasione di leggere i suoi tre romanzi precedenti, (Il dolore secondo Matteo, Tutte le feste di domani e Miden), si cimenta in una impresa letteraria nuova: farci accomodare al tavolo della sua esistenza. Ci si alza 170 pagine dopo, divertiti, leggermente ubriachi e con la voglia di abbandonarsi a una riposante malinconia.

A tratti Lessico familiare, vagamente Parenti Serpenti, per qualche ragione un po’ anche Compagni di scuola, Niente di Vero è la storia di Veronica che poi non parla tanto di sé ma parla di noi, facendo vibrare le corde tese di traumi e bugie, di affetti e separazioni, spingendoci a perdonare con un sorriso amaro. Perché la psicoterapia è importante, ma l’ironia è tutto.