L’idea, peraltro rimbalzata più volte ma con nomi diversi, la lancia di Goffredo Bettini, gran regista dell’operazione giallorosa, e opta per un nome che, solo a sentirlo, nel Palazzo piovono scongiuri: «Verifica». In gennaio e «o si approva o non si approva». Giuseppe Conte concorda ma stempera trasformando la verifica in «cronoprogramma»: «Sarò io che inviterò tutte le forze politiche a fare chiarezza sugli obiettivi». Non solo per i prossimi mesi. I verificanti dovranno stilare «un cronoprogramma fino al 2023». Fioccano adesioni da ogni sponda della maggioranza. Luigi Di Maio ci tiene ad assentire da ultimo, per rimarcare, spiegano i suoi, che il primo a parlarne era stato lui. «La condivisione interna di dover stilare un’agenda, come chiesto da noi, dimostra che ci sono le basi per fare ancora meglio». Di Maio sembra avere ambizioni contenute: per fare «ancora meglio» della prova sin qui offerta non è che ci voglia molto.

IN REALTÀ I DUE TERMINI, «verifica» e «cronoprogramma», non sono sinonimi ed è palazzo Chigi a specificare che da quelle parti intendono «una roadmap di governo con le priorità e un cronoprogramma di riforme strutturali». Faccenda ben diversa da ruvido chiarimento sulle intenzioni reali di tutti immaginato da Bettini. L’agenda a cui pensa Conte verrà stilata come il «contratto» tra Lega e 5 Stelle. Ciascuno insisterà per infilarci la sua priorità di bandiera. Per i 5S acqua pubblica e salario minimo. Per il Pd investimenti. Per Italia viva taglio delle tasse. Per LeU, ma in realtà per tutti essendo il solo punto comune della maggioranza, il Green New Deal. Se si tratterà di una vera agenda politica o di un libro dei sogni lo diranno i fatti. I precedenti, con qualsiasi maggioranza, depongono a favore della seconda ipotesi ma non si può mai dire. La «verifica» di Bettini è un’altra cosa. L’intenzione sarebbe quella di mettere Matteo Renzi e Luigi Di Maio con le spalle al muro costringendoli a prendere l’impegno di abbandonare la guerriglia interna. Le promesse, a parole, arriveranno di certo. Costano poco e impegnano niente.

La verifica a gennaio ci sarà davvero ma passerà solo di sguincio sul tavolo della maggioranza. Passerà invece per le urne dell’Emilia Romagna e della Calabria. Si dipanerà quando, a fine mese, arriverà al pettine il nodo Mes. Quello, in realtà, è uno scoglio con il quale la maggioranza dovrà fare i primi conti già domani. Bisogna approntare una risoluzione di maggioranza dopo l’intervento del premier Conte al Senato. Intesa generale sull’opportunità di tenersi sul vaghissimo, per rinviare pur se non dicendolo apertamente. Neppure questa, però, è una missione facile. Ieri un vertice di maggioranza ha messo a punto una bozza che non è tuttavia ancora definitiva. Dice che bisogna «condizionare l’adesione di ogni decisione vincolante in merito alla revisione del Mes alla finalizzazione, ancora non conclusa, del suo processo di riforma attraverso la definizione delle regole».

PROSA INCONCEPIBILE a parte, significa che il semaforo verde deve essere subordinato all’accettazione della proposta italiana sulle Cacs, Clausole di azione collettiva, che mira a reintrodurre, in caso di ristrutturazione del debito, per alcune categorie di titoli il doppio voto dei possessori dei titoli pubblici, superato invece dalla riforma che introduce il voto unico. È anche la battaglia del ministro dell’Economia Gualtieri, e toni ultimativi a parte non incontra ostacoli. Più spinoso il secondo passaggio voluto dai 5S. Si chiede infatti di «assicurare l’equilibrio complessivo dei diversi elementi al centro del processo di riforma, approfondendo i punti critici del pacchetto». In particolare escludendo la ponderazione dei titoli di Stato.

A prendere l’enunciato sul serio, non ci sarebbero possibilità di andare avanti. La «logica di pacchetto» imporrebbe infatti un voto contestuale su tutti e tre i capitoli della riforma (Mes, Bilancio e Unione bancaria), che per la Ue è del tutto escluso. Ma anche solo un più generico impegno sul punto chiave, la «ponderazione» dei titoli di Stato sulla base del rischio, non potrà essere assunto facilmente, dal momento che l’Eurogruppo dovrebbe affrontare il problema in giugno mentre il voto sul Mes è previsto entro marzo.

DI MAIO HA SIN QUI reclamato il voto contestuale sull’intero articolato dei tre punti, chiarendo che non basterebbe una road map. Ci ripenserà, perché puntare i piedi vorrebbe dire la crisi di governo domani. Non è detto però che ci ripensino tutti i suoi senatori e quindi, pur trattandosi solo di un rinvio, domani la tensione sarà alta.