Si chiude domenica 7 aprile la 15° edizione di Irish Film Festa, dedicato al cinema e alla cultura irlandesi alla Casa del Cinema di Roma. Un percorso di anteprime e omaggi che quest’anno ha come ospite d’onore il regista e sceneggiatore Pat Collins, originario della contea di Cork e molto legato artisticamente alla sua terrà d’origine dove ha girato lungometraggi, film per la televisione e documentari biografici (si veda quello su Gabriel Byrne o quello sullo scrittore Tim Robinson girato a Connemara).

Ma per quanto la storia e la geografia dell’Irlanda e in particolare della sua parte sud occidentale siano cruciali per comprendere il profilo biografico e artistico di questo autore che si è fatto conoscere a partire dagli anni Novanta insieme ad altri connazionali come Neil Jordan e Jim Sheridan, non si può limitarne gli orizzonti ed escluderne la dimensione globale. Di film in film Pat Collins sembra infatti aver cercato di ritrovare la propria casa nell’altrove, in un mondo assai più vasto. Di questo orizzonte interconnesso al di là delle frontiere sono entrati a far parte, per esempio, Abbas Kiarostami omaggiato nel 2003 con il ritratto poetico The Art of Living, lo studioso americano di folklore Henry Glassie (Field Work del 2019) e lo scrittore John McGahern (A Private World del 2006) filmato per le strade di Tokyo poco prima della sua scomparsa. A Roma, Collins porta il suo ultimo lungometraggio That They May Face The Rising Sun (traducibile con il verso poetico «che possano porgere il viso al sole nascente»), tratto proprio da un romanzo dell’amato McGahern (1934-2006) di cui in Italia sono uscite diverse opere (Moran tra le donne, Einaudi 1990; Il pornografo, Einaudi 1994; The Dark, Minimum Fax 2016, Cose impossibili di tutti i tipi, Racconti 2020).

Libro e film sono il ritratto corale della vita di una piccola comunità rurale e di un progetto di ritorno alla terra. Nel gruppo di interpreti del lungometraggio, che nel 2023 ha vinto il premio come miglior opera al Dublin International Film Festival, spicca come protagonista Barry Ward, noto da noi soprattutto per aver interpretato il ruolo di Jimmy Gralton in Jimmy’s Hall di Ken Loach. Il regista incontrerà il pubblico sabato 6 presso la Sala Cinecittà dopo la proiezione delle ore 18. Invece domenica 7 sarà la volta dell’omaggio a Cillian Murphy, appena insignito dell’Oscar come Miglior Attore (primo irlandese nella storia) per la sua inquietante incarnazione dello scienziato Robert Oppenheimer. Per omaggiarlo si terrà la proiezione dell’ormai classico Breakfast on Pluto di Neil Jordan dal romanzo di Patrick McCabe.

Nel 2005, il film consacrò Murphy, all’epoca appena trentenne, come promessa del cinema e interprete già tra i più notevoli della sua generazione nel ruolo di una persona transgender alla ricerca delle proprie origini. Con il suo cast solido (Stephen Rea, Brendan Gleeson, Liam Neeson, insomma il top del top) e alcuni raffinati cameo (su tutti quello dello stesso scrittore e co-sceneggiatore McCabe nel ruolo di un insegnante di scrittura creativa e quello del musicista Brian Ferry in vesti molto più laide), il film di Neil Jordan torna, benché in modo completamente originale rispetto ad altri suoi film (La moglie del soldato, Michael Collins, Un amore forse due), su alcuni luoghi caratteristici della sua poetica: l’intreccio tra letteratura e cinema, tra storia privata e storia collettiva di un paese sempre diviso da conflitti identitari, le diverse forme che può assumere la lotta per l’indipendenza, l’indagine sui meandri complessi dei rapporti sentimentali. Sullo sfondo degli anni straordinariamente colorati e creativi del glam rock, i personaggio di Murphy affronta una serie di avventure che riattraversano tra latex, lurex e piume di struzzo il genere picaresco-rocambolesco in cui Jordan aveva già dato prova di grandi doti narrative ai tempi di Non siamo angeli con Robert De Niro e Sean Penn. Sempre domenica ma alle ore 18, un’altra ospite del festival, la regista e montatrice Patricia Kelly, accompagnerà un’anteprima italiana. Il suo Verdigris (2023) ha riscosso premi in Irlanda e nel Regno Unito con una storia estremamente attuale di violenza contro le donne ma anche di amicizia come forma di resistenza.

Il film si colloca in quell’immaginario dublinese di umanità ferita e urbanità grigia che ha reso un certo cinema irlandese riconoscibile e apprezzabile nel mondo e senza smarcarsi del tutto dallo stereotipo, lo trasforma in una risorsa. L’artificio narrativo del film è infatti il Censimento del 2022 a partire dal quale si dipana il dramma e il suo legame con il contesto locale. Le protagoniste sono Marian e Jewel, due donne che nulla destina a incontrarsi perché troppo diverse per età, censo e professione. Le loro strade si incrociano per le vie di un quartiere popolare difficile della città quando la prima, appena pensionata dopo una vita come segretaria di uno studio legale, decide di impiegarsi come rilevatrice di censimento, un modo per arrotondare a fine mese, occupare il tempo libero e allontanarsi per intere giornate da un appartamento e da un matrimonio in cui sembra vivere un po’ ospite e un po’ prigioniera. Mal sopportata da un marito ipercritico e anaffettivo, che alla sua compagnia preferisce quella di una infinita schiera di soldatini di piombo, Marian cena ogni sera relegata in un angolo di un tavolo del tinello occupato per lo più dal campo di battaglia su cui si fronteggiano gli eserciti in miniatura che il coniuge costruisce, modella, dipinge con tutta l’applicazione ossessiva di chi ha deciso di voltare le spalle alla propria vita e alla donna con cui l’ha costruita. Anche il matrimonio tra Marian e Nigel appare come un campo di battaglia, un territorio minato dalle battute ostili dell’uomo, in cui ogni domanda suona come un’imboscata e qualsiasi proposta o iniziativa della donna viene affossata con parole dure come pietre. Contribuire al censimento in un quartiere della città lontano da quello agiato in cui risiede è dunque un modo di volare per alcune ore lontana da un nido non di ovatta ma di vipere.

Ma in quella periferia di case popolari délabré ben poche sono le porte pronte ad accogliere una rappresentante delle istituzioni, una ficcanaso con accento e abiti palesemente incongrui. Il suo sventurato porta a porta incontra diffidenza e aggressività o quando va bene la totale incomprensione di una donna immigrata che non parla la lingua del paese di accoglienza. Tra povertà, analfabetismo e disoccupazione c’è poi Jewel, gioiello non ancora diciottenne, che splende nonostante le ammaccature di una vita violenta. Marian nota la ragazza e ne vince le resistenze convincendola a farle da guida nel quartiere, facendosi aprire la porta di casa dai residenti, spacciatori compresi, e a raccogliere tutti i questionari. La regista non indulge troppo nel pietismo, lascia il disagio sulla soglia delle case, lo evoca attraverso gesti e situazioni, senza trascurare i legami solidali e le forme di generosità di cui è capace chi fatica a campare. Il film si concentra per lo più sul rapporto tra le due protagoniste che nel frequentarsi si rivelano e svelano accorgendosi di come l’oppressione in tutte le sue forme contribuisca a costruire il posto scomodo delle donne nel mondo tra sfruttamento, norme estetiche e morali che possono trasformare il corpo femminile in una casa molto inospitale. Verdigris mostra in questi due destini incrociati l’insidioso continuum di violenze verbali, economiche, fisiche e psicologiche che danno forma alle relazioni abusive e si appella alla forza degli affetti, alla presa di parola, al «sorella io ti credo» e ti ascolto e ti accolgo come unica soluzione per mettere fine alla cultura patriarcale del possesso e della morte.