Vera vive sulla costa orientale della penisola della Kamciatka, in Russia. Oltre, c’è solo l’oceano Pacifico e, forse, la fine del mondo. Lucas sta dall’altra parte, in un villaggio sulla costa del Cile. Lontanissimi fisicamente, entrambi sognano un amico immaginario (anche reale) e la sera vanno sulle rispettive rive per cercare di comunicare con l’alfabeto Morse con quell’ignoto qualcuno «di là». Mandano messaggi attraverso il mare e con la luccicanza che accendono sperano di raggiungere un essere umano aperto all’amicizia, superando le barriere della fisica e affidandosi alla legge del cuore. È un albo sulla solitudine dell’adolescenza e pure sul desiderio di condivisione emotiva Dove finisce il mondo, l’ultima opera di Anna Desnitskaya (Donzelli, pp. 48, euro 22, da oggi nelle librerie), che qui diventa scrittrice per la prima volta, dopo aver sempre illustrato testi di altri. L’autrice russa l’avevamo conosciuta con i meravigliosi disegni di C’era una casa a Mosca e Transiberiana tutti a bordo, che in fondo erano atti d’amore verso il suo paese. Ma allo scoppiare della guerra, Desnitskaya ha optato per un esilio volontario ed è emigrata in Israele. Dove finisce il mondo racconta due isolamenti geografici (e mentali) ma, spiega, «non è nato dopo il confinamento. L’idea mi è venuta prima della pandemia e il testo l’ho scritto nell’estate del 2021 quando ormai sembrava che il peggio fosse passato. Il libro suggerisce che puoi trovare una persona esattamente come te anche all’altro capo della Terra».

EPPURE, un alone malinconico avvolge la storia, che si legge pure alla rovescia, come se Vera e Lucas fossero due personaggi a specchio. E forse la stessa Desnitskaya può cogliere in loro qualche riflesso di sé. «Essermi allontanata dal mio paese è la cosa più dura che mi sia mai capitata. Amo così tanto Mosca, è la mia casa, tutta la mia famiglia ha vissuto lì fin dal 1917. Ma ora mi sembra che la mia adorata città sia ostaggio di un bandito. I miei cari e gli amici hanno lasciato la Russia». Nel libro, c’è una nonna che cucina piatti russi in una casetta, Vera dal suo letto sente lo sfrigolio degli syrniki. È una memoria autobiografica acuita dalla nostalgia? «Non esattamente, esprimo semplicemente la mia gratitudine a mia suocera. Quando stiamo da lei, si sveglia sempre presto e prepara una colazione fantastica: pancake o syrnik. Ci avvolge con il suo calore affettivo ed è bello sentire che ci tiene così tanto a noi, nonostante se io stessa sia già una madre».

DESNITSKAYA racconta di non aver subito l’ostracismo culturale in quanto russa fino a oggi, ma di essere rimasta molto colpita quando l’illustratrice Polya Plavinskaya, selezionata alla Children’s Book Fair di Bologna, ha ricevuto una valanga di messaggi di odio. «Penso che sia comprensibile, ma molto triste. E sono stata felice quando la Fiera ha deciso invece di sostenerla».
Infine, la scrittura. Cosa ha significato per un’autrice abituata a una narrazione per immagini usare un altro linguaggio? «Ho voluto provarci perché sapevo che nessuno meglio di me avrebbe potuto dire quel che ritenevo giusto. Ma la difficoltà maggiore è stata proprio riuscire a rendere vivi i personaggi usando solo parole!»