In un’epoca che tende per immaturità – politica e anche emotiva – a prediligere la pulsione alla spiegazione e le sentenze all’elaborazione di spazi di libertà e di diritto, la famiglia dopo l’esplosione e la messa in discussione radicale del Novecento si è ricomposta sotto forma di frammento sparso. Pezzi inesplosi, spesso non più separabili di un elemento che, monco del suo spazio sociale e intimo, non solo non ha cambiato intimamente struttura, forma e dinamica, ma contiene al suo interno un’offesa intrinseca e una perdita di senso difficilmente assorbibili. Il crollo demografico e l’allungamento della vita, che per la maggioranza della popolazione significa spesso solo una lunga stagione d’invecchiamento, completano il quadro di una difficile condizione che vede le famiglie come l’ultimo spazio di condivisione e solidarietà, ma anche e sempre il luogo in cui le peggiori dinamiche emotive prendono corpo.

SUSANNA BISSOLI, scrittrice e mediatrice culturale, con I folgorati (Einaudi, pp. 184, euro 18) – suo secondo romanzo, dopo Le parole cambiano tutto (Terre di mezzo) pubblicato più di dieci anni fa – torna con forza ai temi della famiglia e del rapporto con la figura paterna in una narrazione che ha in parte la forma di un sequel rispetto al primo romanzo, pur sviluppando una forma totalmente autonoma di racconto. Protagonista de I folgorati, è Vera, una donna che scopre per la seconda volta di essere ammalata di cancro. Preziose e precise le pagine che portano alla scoperta della malattia, la fredda confidenza dei medici, la voglia di condividere la paura, ma anche la necessità di una solitudine da ricercare al di là dell’affetto circostante. Per Vera, la malattia diviene così una lente per ridefinire e forse in parte recuperare i rapporti con la famiglia, o meglio con quello che ne resta, anche sentimentalmente, dopo la morte della madre che ha scavato profondamente come spesso capita generando una distanza tra chi resta, veri e propri superstiti di un tempo esaurito.

ATTORNO ALLA PROTAGONISTA si agita Nora, la sorella con l’ansia da controllo e proprietaria di un negozio di borse, il cui affetto è più subìto che accolto da Vera che vive come in pausa dalla vita. Chiusa in una sospensione mista ad apprensione che vede attorno a lei vagare un compagno con cui convive solo a tratti all’interno di una relazione altalenante. E poi soprattutto c’è la scrittura, tema centralissimo del romanzo, abbandonata e lasciata per strada da Vera come un’ambizione da cui stare alla larga. Un desiderio impossibile di completezza e realizzazione per lei che si sente di vivere sempre a metà, in una famiglia a metà e che tutto lascia sempre a metà: come dice a se stessa e come sente dirsi da chi le sta attorno.

E INFINE ZENO, il padre ottantenne, acciaccato e ironico che porta dentro di sé una distanza dalla figlia forse incolmabile. Una separazione anche culturale tra padre e figlia che però la malattia attenua nell’imbarazzo di gesti nuovi e a tratti imbarazzati che riportano in superficie un affetto prima nascosto e rimosso. In uno stato tra l’immobilità e il crollo, sarà la scrittura a sciogliere parte dei nodi famigliari e a trasformare una fuga impossibile e ormai fuori tempo massimo in una forma di liberazione condivisa e felice, pur tra le ferite dell’esistenza. La felicità è infatti nel movimento dei giorni come della scrittura. Un incedere che contiene meraviglia e stupore, ed è questo il pregio principale di un romanzo rapido che ha la forza dell’ironia senza opporsi alla fatica della malattia. Un’accettazione del reale che diviene anche sua imprescindibile trasformazione.