Venti foto di Wim Wenders per ascoltare la voce del silenzio
La recensione Rappresentare lo spettacolo irrequieto del mondo e, nel contempo, costruire una testimonianza in divenire, un percorso interiore sull’orizzonte implacabile di eventi che intrecciano, in uno stretto e articolato gioco di […]
La recensione Rappresentare lo spettacolo irrequieto del mondo e, nel contempo, costruire una testimonianza in divenire, un percorso interiore sull’orizzonte implacabile di eventi che intrecciano, in uno stretto e articolato gioco di […]
Rappresentare lo spettacolo irrequieto del mondo e, nel contempo, costruire una testimonianza in divenire, un percorso interiore sull’orizzonte implacabile di eventi che intrecciano, in uno stretto e articolato gioco di interazioni, il piano sociale a quello geografico, politico, culturale.
A questa parabola riflessiva, a questo sfondo nervoso e nodoso, Wim Wenders (Düsseldorf, 1945) ha dedicato, sin dalle sue prime battute, una progettualità fondata sul recupero della memoria per riunire, sotto una stessa prospettiva etica ed estetica, i lembi di una verità ricercata con vivace trasporto emotivo.
«Quello che amo soprattutto nella fotografia analogica, non per nostalgia, ma per puro piacere», ha suggerito in un documento poetico, «è che essa può ancora rappresentare la realtà. L’atto di fotografare è», non a caso, «un lavoro costante contro la sua progressiva scomparsa». Un lavoro critico, appunto, che mira a trattenere, attraverso due linguaggi privilegiati – la fotografia e il cinema – l’ardore del mondo, la fragranza delle cose stesse.
Regista tra i più apprezzati a livello planetario, Wim Wenders è – accanto a Werner Herzog e, tra gli altri, Fassbinder – uno degli attori del Junger Deutscher Film, di un panorama che mira a rivalutare il neorealismo italiano e la nouvelle vague francese per concepire spazi intimi e psicologici, climi allucinati, feroci polemiche sociali, poetiche accuse. Ma anche un pensatore per immagini che, attraverso un lungo viaggio per il mondo (avviato nel 1984 con Paris, Texas), ha perlustrato luoghi isolati in cui pensare il pensiero e mettere in gioco se stesso come un antropologo impegnato.
Seguendo questa inclinazione di natura etnoestetica gli scatti fotografici esposti a Napoli (fino al 19 novembre) negli spazi di Villa Pignatelli / Casa della fotografia (Riviera di Chiaia, 200) centrano l’attenzione su un cammino, ormai trentennale, che porta l’artista alla scoperta di verità laterali. I suoi scatti sono, difatti, appunti della memoria (ogni scatto in mostra è affiancato da un appunto di viaggio del fotografo), spazi vissuti con la precisione di un occhio che scruta etnograficamente i brani della vita per suggere, da angolazioni differenti, le varie ossature del mondo.
Con Wim Wenders / Appunti di viaggio. Armenia Giappone Germania, Villa Pignatelli propone, allora, una retrospettiva, curata da Adriana Rispoli, che sottopone il visitatore, attraverso venti memorabili scatti fotografici, ad un paesaggio visuale in continuo divenire, ad un’impaginazione in cui ogni immagine racconta il desiderio di conoscere il palpitare del mondo.
«Quando si viaggia molto, e quando si ama semplicemente vagare e perdersi, si può finire nei luoghi più bizzarri» ha suggerito in una dichiarazione pubblicata nel 2010 (Lugares, estranhos posta quietos / Places, strange and quiet, Imprensa Oficial, 2010), quasi ad indicare un percorso di conoscenza che parte da assunti tesi ad intessere l’arte alle trame sottili dell’esperienze estetica: «la realtà che scopro, ogni volta e in ogni dove, quei luoghi inconsueti e solitari, sono così più coinvolgenti ed emozionali, nel mio book, per il semplice motivo che esistono. La maggior parte delle volte con umiltà, talvolta con orgoglio, spesso dimenticati e raramente noti».
Ferris Wheel, uno scatto realizzato in Armenia nel 2008, fa da viatico alla mostra per evidenziare un approccio alla realtà che alleggerisce la malinconia e pigia sul pulsante dell’immaginazione con il desiderio di bloccare il tempo, di irrigidire e ammorbidire le distanze, di ascoltare la voce del silenzio. «Il vento spostava leggermente la grande ruota, che di tanto in tanto cigolava. L’eco che immaginavo: musica da fiera, e voci, risate e grida, come se il mondo non esistesse» scrive l’artista in un taccuino pregiato che racconta fulmineamente le varie stazioni, i vari momenti, i vari scatti fotografici.
Una serie preziosa di fotografie (sette, più precisamente) dedicate al Giappone «e in particolare alla cittadina di Onomichi sulle tracce del regista Yasujirō Ozu che tanto ha influenzato la sua visione» (Rispoli), offre, nel percorso, alcuni brani di un genere artistico, il paesaggio, con il quale l’artista si misura, da tempo, per allacciare la calma della natura alle lontananze della storia.
Immobilizzati come pensieri sulla metamorfosi delle cose e della vita, gli ambienti urbani di Berlino, rappresentano, poi, un ulteriore taglio critico che pone l’accento sulla città.
Le finestre di Berlino est, il quartiere ebraico e i nuovi edifici – Alles oder Nichts (Tutto o niente) è una critica feroce ai cambiamenti radicali che seppelliscono la memoria – rappresentano, per Wenders, per il Wenders di Der Himmel über Berlin (1987) e In weiter Ferne, so nah! (1993), luoghi attraverso i quali fare i conti con gli artigli di un futurisme de l’istant che inquieta. Con una temperatura, ancora, in cui all’uomo, per dirla con Brandi, «non è rimasta che la nuda flagranza della realtà del presente».
Viaggiatore planetario, intellettuale che naviga nell’intimo del pensiero umano, esploratore solitario e inviato speciale nella realtà, Wim Wenders mostra, così, attraverso questi suoi scatti scelti (venti in tutto), un percorso arguto che spinge lo sguardo dello spettatore in atmosfere traslucide, cremose, pungenti e nostalgiche.
Atmosfere che prendono il tempo per la coda e invitano a leggere, con attenzione, una testimonianza lirica su quel che è stato, che mai più sarà.
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