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Venti anni al guru, l’uomo che ha consegnato l’Haryana a Modi

Venti anni al guru, l’uomo che ha consegnato l’Haryana a ModiIl guru indiano Gurmeet Ram Rahim Singh

India Annunciato ieri l'ammontare della pena dopo la condanna per stupro e i durissimi scontri di piazza di venerdì, con un bilancio di 32 morti. Stavolta la polizia ha presidiato il carcere per evitare nuove violenze

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 29 agosto 2017

Dopo oltre dieci anni di indagini e svariate pressioni politiche per archiviare il caso, venerdì 25 agosto la corte federale di Panchkula, nello Stato indiano dell’Haryana, ha giudicato il guru Gurmeet Ram Rahim Singh colpevole di aver violentato due ex adepte.

Tre giorni dopo, ieri, in un’aula speciale nei pressi della prigione di Rothak, il giudice Jagdeep Singh ha definito l’ammontare della pena in primo grado a vent’anni di reclusione, dieci per ogni vittima: l’accusa, rappresentata dal Central Bureau of Investigation (l’Fbi indiana) aveva chiesto l’ergastolo e ha immediatamente annunciato ricorso all’Alta Corte per un verdetto più severo.

La difesa, citando le «attività filantropiche» del guru come esempio della buona condotta di Singh, senza negare il reato, si era rimessa alla clemenza della corte.

Singh, 50 anni, eccentrico guru-attore-cantante noto a livello nazionale per hit come Love Charger e pellicole autocelebrative come Messenger of God (scritta, diretta, prodotta e recitata dallo stesso guru), dagli inizi degli anni Novanta è a capo della Dera Sacha Sauda (Dss), setta religiosa ibrida con elementi di induismo e sikhismo enormemente influente nel nord dell’India: secondo le ultime stime conterebbe oltre 60 milioni di fedeli, in larga parte negli Stati di New Delhi, Haryana e Punjab, attingendo dalle comunità dalit e hindu di casta bassa.

Nei giorni precedenti la sentenza, più di centomila fedeli si erano radunati nella cittadina di Panchkula, minacciando ritorsioni e violenze in caso di verdetto di colpevolezza.

La rabbia dei fedeli, come promesso, venerdì scorso si era abbattuta sulla città, in scene di guerriglia urbana a fatica contenute dalle forze dell’ordine locali schierate dal governo dell’Haryana, da tre anni sotto l’amministrazione del Bharatiya Janata Party (Bjp).

Nonostante gli appelli alla calma diffusi prima dallo stesso guru Singh e, dopo la detenzione, dai leader della Dss, il bilancio è tra i più gravi della storia recente dell’Haryana: 32 morti, oltre 300 feriti, centinaia di arresti e decine di veicoli, palazzi e treni dati alle fiamme.

Secondo i referti post mortem, le vittime – quattro donne, 27 uomini e un minorenne, tutti adepti della DSS – sono state uccise da colpi d’arma da fuoco al capo o al petto, probabilmente esplosi dalle forze paramilitari chiamate a supporto della polizia locale che, dicono i testimoni, non avrebbe sparato un colpo.

Dopo le critiche piovute sull’amministrazione locale dell’Haryana, incapace di contenere la rabbia dei fedeli, ieri le forze dell’ordine non si sono fatte trovare impreparate, presidiando in forze l’area circostante il carcere di Rohtak e il quartiere generale della Dss di Sirsa. Secondo quanto riportato dalla stampa locale, a differenza di venerdì scorso non ci sono stati incidenti e la situazione nello Stato, dove è stato imposto il coprifuoco in alcune aree, è stata mantenuta sotto controllo.

Nelle elezioni nazionali del 2014, stravinte dal Bjp dell’attuale primo ministro Narendra Modi, Guru Ram Rahim Singh aveva apertamente indicato ai fedeli della Dss di votare per i candidati del Bjp in Haryana: quell’anno, per la prima volta nella storia del partito, il Bjp ha vinto le elezioni in Haryana senza bisogno di alleanze. Secondo Indian Express, 19 dei 47 deputati del Bjp eletti in Haryana hanno «portato i propri personali omaggi» al guru.

Su guru Singh pendono anche due procedimenti penali per l’omicidio di un giornalista e del contabile della setta, che controlla proprietà e attività commerciali del valore di miliardi di rupie: tutte esentasse, essendo le attività della setta fiscalmente «con obiettivi religiosi o caritatevoli».

Singh, secondo i resoconti di alcuni reporter presenti nell’aula bunker, alla lettura della sentenza è scoppiato in lacrime e ha chiesto perdono al giudice, rifiutandosi di lasciare il tribunale.

È stato trasportato fuori dal tribunale di peso e, concluse le visite mediche, gli è stata assegnata una cella «come al resto dei detenuti», fugando il sospetto di un «trattamento Vip» riservato al guru dall’amministrazione locale.

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