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Vent’anni fa Stockhausen finiva «Licht»

Vent’anni fa Stockhausen finiva «Licht»

Improvvisi A proposito di un'opera mondo, in musica

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 luglio 2023

Qual è la «corda rossa» che lega insieme titoli tra loro così lontani e stranieri come Faust, Moby Dick, i Cantos di Pound, l’Ulisse di Joyce, l’Uomo senza qualità, Cent’anni di solitudine? Sono tutte – secondo Franco Moretti – opere mondo: opere totali che non rispecchiano un mondo, ma costituiscono un mondo. «Opere – parole sue – enciclopediche, polifoniche, aperte, coltissime, stratificate, didascaliche, interminabili». Requisiti che nella tradizione della musica occidentale appartengono ad almeno una dozzina di opere: Il Ring di Wagner (l’unica che Moretti iscrive al club), L’Orfeo di Monteverdi, La Passione secondo Matteo di Bach, Il Don Giovanni di Mozart, il Fidelio di Beethoven, Il Wozzeck di Berg e poche altre. In coda alla lista potrebbe essere accolto anche uno dei «capolavori imperfetti» del secondo Novecento: Licht di Karlheinz Stockhausen, l’eptalogia portata a termine, dopo ventisei anni di inenarrabili avventure, nel 2003, esattamente un ventennio fa.

Uno dei molti anniversari dimenticati, ma una buona occasione per porsi una domanda non scontata: Licht possiede o no i «sette caratteri capitali» dell’opera mondo? Interminabile. Sì, letteralmente. Il ciclo, costituito da sette opere, ognuna dedicata a un giorno della settimana, comporta una durata di circa 29 ore, quasi il doppio di una esecuzione della Tetralogia di Wagner.

La durata meramente cronologica, però, conta fino a un certo punto: l’impianto concettuale di Licht è infatti letteralmente ciclico, ossia si basa su un tempo che non conosce inizio e non conosce fine. I sette giorni della settimana rimandano ai giorni della creazione, che, nella prospettiva cristiana, non hanno mai fine. Coltissima ed enciclopedica. Licht gronda di «sapienza». Il cerchio esteriore è costituto dalla cultura religiosa apertamente protestante di Stockhausen.

I protagonisti sono simbolicamente tre: Michael, il creatore del Cosmo in cui viviamo, Eve, lo spirito che abita il sole, i pianeti, la nostra stessa terra e Luzifer, il rovescio nero della Luce, l’Essere che dice No, il Male. I cerchi più interni conducono verso centri di attrazione mistica più eclettici ed eterogenei: la religione vedica, gli insegnamenti spirituali di Sri Aurobindo, il controverso Libro di Urantia. Stratificata. O per meglio dire rizomatica.

L’intero edificio dell’opera è generato da una matrice musicale unica, quella che Stockhausen chiama, con un certo compiacimento, Superformula, ossia un dispositivo polifonico di sedici battute che sovrappone tre diverse serie di durate e di altezze variabili, ognuna delle quali corrisponde a uno dei tre personaggi chiave. Aperta. Licht è aperta, apertissima. Le singole scene che costituiscono l’eptalogia possono, anzi devono essere considerate, come opere totalmente autonome rispetto all’insieme, ma al tempo stesso smarriscono senso e significato se non vengono collocate entro l’alveo «naturale» del grande, ossessivo, totalizzante progetto del ciclo. Didascalica. Non solo: l’opera è pedagogica, educativa, dimostrativa. In modo a volte irritante.

L’intento non è quello di dimostrare una tesi filosofica o un dogma religioso, bensì solo e soltanto la natura profondamente rituale, spirituale e religiosa del teatro. Licht è un’opera sul teatro, un’opera il cui oggetto, portando ai limiti estremi il principio della circolarità, è nient’altro che se stessa. Polifonica. Una polifonia vocale che traduce una vertiginosa polifonia letteraria: il testo è infatti costituito da materiali appartenenti a matrici diversissime: fonemi disarticolati, nonsense, allitterazioni, parole-suono, lingue artificiali oppure testi, rigorosamente decontestualizzati, di preghiere, invocazioni, inni, tratti dalla tradizione vedica, buddista, cristiana. Licht – dunque – è un’opera mondo, anche se si sottrae a ogni forma di rappresentazione. È un rito teatrale, magico, sciamanico che infatti nel corso del terzo millennio non è mai stato «celebrato». E forse questo è il suo ineluttabile destino.

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