Venezia 1940-1945: il nemico è in ascolto
Il libro Un estratto da «A Venezia si giuoca e si balla» di Giuseppe Ghigi (edito da LaToletta), la città lagunare durante la Seconda guerra mondiale
Il libro Un estratto da «A Venezia si giuoca e si balla» di Giuseppe Ghigi (edito da LaToletta), la città lagunare durante la Seconda guerra mondiale
Il capodanno del 1940 è l’ultimo prima che le luci dell’Europa si spengano definitivamente. L’autarchia voluta dal regime costringe i veneziani a festeggiare in modo parco, obbligandoli a lunghe ricerche per mettere assieme un cenone dignitoso; i razionamenti di olio, burro, carne e il rialzo dei prezzi provocano qualche mugugno tra i ceti popolari che non incolpano il regime, ma «i siori» che ne avrebbero, così si dice, fatto incetta e scorte, facendo mancare il necessario ai «poareti». A soffrire è anche tutto il comparto legato al turismo, e il timido afflusso di visitatori tedeschi e italiani non compensa la perdita degli arrivi dai Paesi «nemici».
I «dogi» di Venezia, i Volpi, i Cini, i Gaggia, i Donegani, accolgono con qualche perplessità la dichiarazione di guerra dell’Italia; sono preoccupati per la perdita del mercato americano e inglese e per i possibili bombardamenti degli alleati agli stabilimenti di Marghera, ma devono, vuoi per fede o per necessità, far buon viso a una scelta che può rivelarsi fatale, anche se in quei giorni la forza militare nazista sembra essere invincibile. Accettano un po’ confusi la decisione di Mussolini di aprire le ostilità, in sintonia con la loro visione patriotticamente fascista; ma i loro dubbi si manifestano in privato, mentre in pubblico fanno mostra di crederci, non trascurando, ovviamente, i propri affari.
La vita culturale resta molto intensa nonostante la difficile situazione internazionale. Nel maggio del ’40 si apre ai Giardini della Biennale la XXII Esposizione internazionale d’arte alla presenza del re imperatore Vittorio Emanuele III. Il controllo fascista sull’istituzione è totale e l’ammissione alla mostra avviene per invito diretto o partecipando a concorsi per realizzare, per esempio, affreschi o bassorilievi su temi fascisti. Ovviamente non sono aperti i padiglioni di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Danimarca, mentre la Cecoslovacchia, smembrata, ospita nella sua sala i protettorati tedeschi di Boemia e Moravia. Assente anche l’Austria, annessa già nel 1938 al padiglione Germania. Maraini cerca di giustificare le assenze: «Oggi che la Biennale si tiene senza la partecipazione della Francia, dell’Inghilterra, e, a causa dello stato di guerra, di alcuni altri Paesi, oggi ci si accorge che questa mancanza non è affatto essenziale e che l’arte europea può benissimo batter le sue vie senza guardare al faro unico della Ville Lumière, o la Metropoli sua ex alleata».
Il teatro La Fenice, il Malibran, il Goldoni e una serie di altri palcoscenici minori propongono ogni giorno spettacoli e concerti, mentre i cinema, luoghi ancora abbastanza riscaldati, sono sempre molto frequentati. Lo stadio di calcio Penzo, con un Venezia in buona forma, riempie gli spalti di tifosi anche quando la temperatura è glaciale. Se non fosse per l’oscuramento, la costruzione di rifugi anti aereo nei campi, la protezione dei monumenti, la cancellazione di molte regate e del ponte votivo del Redentore, le difficoltà quotidiane per il cibo, la guerra sarebbe solo una fastidiosa eco lontana.
Dall’uno all’otto settembre del ‘40, il cinema San Marco ospita l’ottava Mostra internazionale d’arte cinematografica. Si era pensato in un primo tempo di cancellare la manifestazione, ma, come ricorda Ottavio Croze, allora direttore della mostra, «il duce lo vuole».
«Non c’erano giacche bianche al cinema San Marco la sera dell’inaugurazione – racconta Michelangelo Antonioni nelle pagine della rivista Cinema – né scollature femminili. In tempo di guerra, la guerra anche là dentro faceva sentire la sua presenza imponente; in assenza della mondanità veneziana, tutto appariva più raccolto, austero. A mezzanotte tutto era finito. Autorità, cinematografari e pubblico uscirono fuori in silenzio».
Ma i teatri sono sempre pieni. Il ventitré gennaio, alla Fenice, Vittorio De Sica, Giuditta Rissone e Sergio Tofano vanno in scena con La scoperta dell’Europa e la stessa sera, al teatro Malibran, Toti del Monte è Madama Butterfly. In quei giorni, tutto il pubblico borghese che può permetterselo è in attesa dell’evento culturale più importante dell’anno: l’arrivo della Berliner Philharmoniker diretta nientemeno che da Wilhelm Furtwängler.
Il trenta agosto del ‘41, con la proiezione di No ní morýl (La falena) di František Cap, si inaugura al cinema San Marco la IX Mostra internazionale d’arte cinematografica. «Dunque ci siamo – scrive il critico Guido Aristarco – tra qualche giorno torneremo a Venezia. La guerra non ha consigliato la sospensione dell’Olimpiade del Film. Ogni indecisione, negli infaticabili organizzatori della Mostra, ogni scrupolo etico, sono scomparsi, il cinema è Arte». Cine Illustrato la accoglie così: «Sarà un altro trionfo del lavoro contro le bieche forze della demoplutocrazia d’oltreoceano e d’oltremanica». Gli Usa non sono ancora in guerra, ma è Hollywood a essere nel mirino dei critici italiani. Il giorno dopo, «alle 11.45 precise» riporta Film quotidiano, sbarca all’aeroporto Nicelli del Lido Joseph Göbbels che dorme nel panfilo Cyprus, riservatogli dal conte Gaetano Marzotto, ormeggiato alla punta della Dogana. Per l’arrivo del ministro tedesco a Venezia, si organizzano anche gare di canottaggio e sfilate di «bragossi», e così tutta la città è costretta al servile palcoscenico del criminale nazista.
Nel maggio del ’42, il veneziano Andrea Di Robilant vuole girare un film dedicato alla nascita dei battelli a vapore nell’Ottocento, una storia in equilibrio tra modernismo e tradizione (tanto che nella rivista Film si scrisse: «Il film sostiene una tesi arditissima, ogni nuovo mezzo di civiltà, si afferma a spese di una classe di persone»). Il problema che si pone è che il film prevede l’importante scena finale della Regata storica che è stata sospesa dal 1939 con l’occupazione della Polonia. Che fare? Se si vogliono girare le scene necessarie bisogna trovare un espediente. La casa di produzione propone allora al prefetto Giovanni Battista Dall’Armi di pagare tutte le spese per un’edizione dell’evento ad uso cinematografico, ma assolutamente realistica. Incredibilmente ottiene il consenso e finanzia con settantaseimila lire i costi necessari per i premi, i figuranti e tutto quello che serve per rifare la regata, che si terrà alla presenza del duca di Genova. Una regata «falsa» ma anche «vera», nel puro stile della città.
Il trentun agosto del ‘42 torna in treno a Venezia (viaggiare in aereo sta diventando pericoloso) Göbbels («un fedele di questa città che egli ama e da cui sa di essere amato», scrive Luciano Ramo nella rivista Film quotidiano) per l’inaugurazione della Mostra del cinema. «Oggi la Mostra di Venezia non è più una festa dell’ebraica nobiltà cinematografica – scrive Ramazzotti in Cine Magazzino – degli esangui esteti biondicci pronti a svenire d’ammirazione dinanzi alla raffinatezza naturalistica di un Flaherty». Ricorda Flavia Paulon, per decenni la «dogaressa» della mostra, «Impossibile rendere credibile l’atmosfera in cui si svolse la «Settimana»: un’atmosfera da «il nemico ti ascolta»; in sala c’erano più poliziotti che spettatori, e si mormorava degli uomini dello spionaggio e del controspionaggio italiano e tedesco». Il «caso politico» più frivolo della Mostra è legato a Le vie del cuore di Camillo Mastrocinque. Il film è interpretato da Miriam di San Servolo, sorella di Claretta Petacci, l’amante di Mussolini: quindi, un nome importante negli equilibri delle questioni di letto del regime. Volpi, Maraini e il prefetto della città sono preoccupati per le reazioni del pubblico, ma il peggio arriva dai manifesti del film esposti in città: i veneziani si divertono a scrivere frasi ironiche come «film manicomio» (San Servolo è l’ospedale psichiatrico della città) oppure semplicemente facendo seguire al titolo il nome Petacci. Maraini incarica un addetto di ripulire rigorosamente le scritte.
Con la dissoluzione del regime fascista, la situazione cambia radicalmente. Dopo tre mesi scarsi di governo Badoglio e di relativa libertà, il ventitré settembre del 1943, Mussolini dà vita alla Repubblica sociale italiana, e decide il trasferimento a Venezia di ministeri e di molti uffici statali legati alla cultura e al turismo. Poi, con l’avanzata degli Alleati verso Roma, si sposta qui anche gran parte della produzione e distribuzione cinematografica romana: la Scalera Film, la Cines, la Larius Film, la Genua Film, il Luce, l’Ente nazionale industrie cinematografiche, il Consorzio esportazioni film esteri e l’Ente nazionale acquisti e importazione pellicole estere. In poche parole: Cinecittà, o almeno una buona parte importante di essa, si è trasferita a Venezia. La scelta di Venezia come nuova Cinecittà ha le sue buone ragioni: città protetta dai bombardamenti, dove già la Scalera sta mettendo a punto dei teatri di posa e dove esistono spazi adatti per allocare il materiale tecnico, ma è una scelta che si rivela, come molte altre fatte dalla Rsi, difficoltosa. La città è lontana dai centri di sviluppo e stampa dei negativi e il materiale girato deve essere spedito a Torino in tempi in cui viaggiare non è agevole.
La città è ora sotto il controllo dei nazisti e i repubblichini rialzano la testa. Venezia diventa il rifugio di registi, attori, funzionari ministeriali, spie, faccendieri, furbastri imboscati e profittatori (ma anche di sfollati dell’entroterra) che grazie ai lauti stipendi garantiti da Salò (il regime fantoccio garantisce a quanti accettano di trasferirsi da Roma cospicue indennità di missione e quarantacinque giorni di ospitalità gratuita in albergo: insomma, una cuccagna) possono spendere, occupare appartamenti, alberghi e pensioni, dandosi alla bella vita e facendo così aumentare i prezzi delle derrate alimentari e degli affitti. I più abbienti tra i nuovi arrivati si sistemano in appartamenti sul canal Grande o in alberghi come l’hotel Luna o il Bonvecchiati (la maggior parte delle strutture sono già occupate da ufficiali e sottoufficiali tedeschi in licenza a Venezia), gli altri in case in affitto più modeste o in camere di pensione…
Il Gazzettino, consapevole delle reazioni negative dei veneziani, stigmatizza la situazione: «Venezia non deve essere considerata una mecca, un rifugio sicuro, un paese di assoluta tranquillità o meglio di Bengodi». Eppure, così era diventata la città per molti. Un lettore del settimanale milanese Rinnovamento, scrive scandalizzato: «a Venezia di questi tempi superaffollata, si gozzoviglia da mane a sera, si mangia a quattro ganasce senza ombra di restrizioni alimentari, si fuma a cento lire al pacchetto senza limitazioni ed infine si vive beatamente la più smodata delle vite». Nei circa diciotto mesi di sopravvivenza di Salò, Venezia è una città molto particolare: è come un transatlantico che sta per affondare mentre le orchestrine suonano e i passeggeri ballano e nelle stive si soffre. «A Venezia si giuoca e si balla», scrive in un settimanale di regime un fascista indignato del clima veneziano. Non tutti giocano e ballano durante il regime di Salò, ma la situazione è meno drammatica rispetto ad altre realtà italiane, e si vive in una sospensione del tempo, in attesa che tutto finisca. Venezia è una città anomala, come sempre.
L’hotel Luna a san Marco diventa ben presto il luogo d’incontri preferito dalla combriccola di privilegiati che lo ribattezza, non a caso, Shanghai, la città cinese dove si rifugiarono i profughi russi che fuggivano dall’Unione sovietica, ma popolata anche da faccendieri di tutto il mondo. Nelle sale dell’albergo situato dalle parti della Bocca di piazza san Marco si beve, si gioca d’azzardo, si fanno conoscenze galanti, si combinano affari. Girano spie e poliziotti in borghese che mandano continui rapporti alle autorità competenti le quali non hanno, ovviamente, alcuna voglia di intervenire a reprimere uno stile di vita formalmente condannato dal regime ma praticato nei fatti da chi se lo può permettere.
A tutto questo si accompagnano la retata degli ebrei veneziani e le prime azioni della Resistenza che in un caso (ricordato nel film di Tinto Brass, Senso ‘45) assume il tono «leggero» del clima lagunare. Il dodici marzo del ‘45, al teatro Goldoni, la compagnia Elena Zareschi e Nino Crisman replica la commedia di Pirandello Vestire gli ignudi. Il teatro è esaurito, in sala, oltre al pubblico civile, ufficiali e funzionari della Repubblica sociale, qualche nazista. La recita viene improvvisamente interrotta da quella che la Resistenza considera una «azione di guerra»: entrare in palcoscenico e leggere un comunicato. Poco dopo le nove, un gruppo di partigiani armati, tra cui Franco (Kim) Arcalli e Cesco Chinello, blocca il custode del teatro e irrompe nel palcoscenico. È Cesco ad arringare il pubblico: «Veneziani, l’ultimo quarto d’ora per Hitler e i traditori fascisti sta per scoccare. Lottate con noi per la causa della Liberazione nazionale e per lo schiacciamento definitivo del nazifascismo. La Liberazione è vicina! A morte il fascismo! Libertà ai popoli! Viva il Fronte della Gioventù!».
Alla Scalera e ai Giardini della Biennale si continua stancamente a fingere di girare qualche film, mentre in città si sono riparati molti intellettuali poco «resistenti» come Marinetti, De Pisis, Malipiero. Ma la situazione precipita Il buio sul Terzo Reich e la Rsi sta calando velocemente. Luigi Freddi, ex «duce» del cinema italiano e artefice del Cinevillaggio veneziano, si è reso perfettamente conto di come stanno precipitando gli eventi. Il ventidue aprile abbandona Venezia per cercare rifugio in Svizzera, ma è fermato a Como e arrestato, mentre l’ex federale Nino D’Aroma trova riparo in un convento e si costituisce pochi giorni dopo la Liberazione e successivamente è condannato a diciotto anni di reclusione (amnistiati…). Ben pochi coinvolti nella tragica avventura di Salò pagheranno il conto.
Il ventotto mattina del ’45 è una giornata di pioggia e mentre le squadre di partigiani occupano i centri nevralgici della città, Geo Tapparelli occupa gli studi del Luce e dell’Enic, ponendo fine alla inconsistente produzione cinematografica repubblichina. Con le macchine da presa del Luce, Francesco Pasinetti, Glauco Pellegrini e Rino Filippini riprendono alcune fasi della liberazione della città realizzando uno dei rarissimi filmati dell’azione resistenziale: Venezia insorge.
Il ventinove aprile le prime avanguardie alleate arrivano a piazzale Roma. Michael Reynolds, reporter della Bbc, è al seguito e invia il suo servizio appena giunto in città: «È una serata meravigliosa, con un cielo rosato stupendo e nuvole color porpora, la prima impressione di Venezia all’orizzonte è davvero magica».
Il cinque maggio è tempo di festeggiare. Si sfila in piazza san Marco, si canta e si balla, ma non più nell’attesa, per alcuni comoda, del naufragio di un regime. Ora si canta e si balla nella speranza di un inizio di libertà.
Tuttavia, nei giorni successivi alla Liberazione, Venezia non perde l’aura di città semicupio, di luogo di tranquillo e romantico. All’hotel Danieli, l’orchestrina suona Sun Valley Serenade e in un Combat film dell’ottobre del 1945 militari statunitensi e alleati fanno i turisti: vanno in gondola, danno da mangiare ai piccioni di piazza San Marco, siedono a bere il caffè al Florian, passeggiano per la città come poco tempo prima avevano fatto esattamente i soldati tedeschi.
Cambiano le divise, ma il destino di Venezia non è mutato.
* Storico e critico cinematografico, autore di «La memoria inquieta» (2009), «Il tempo che verrà, cinema e Risorgimento» (2011), «Le ceneri del passato, il cinema racconta la Grande Guerra» (2014), «Oro e piombo» (2017), «Si salvi chi può. Cinema apocalisse e altri disastri» (2022) e «A Venezia si giuoca e si balla» (2’24, edito da LaToletta) da cui è estratto il brano qui proposto.
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