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Venerdì di preghiera e di sangue nel Sinai, carneficina alla moschea

Venerdì di preghiera e di sangue nel Sinai, carneficina alla moscheaBir al-Abd, Sinai egiziano, la moschea di al Rawda subito dopo l’attacco di ieri – Ansa

Attacco jihadista contro la comunità sufi, almeno 235 i morti. In Egitto infuria la guerra di al-Sisi, che promette: «Risponderemo con la forza bruta»

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 25 novembre 2017

Di nuovo l’Egitto, di nuovo un luogo di preghiera. Stavolta nel mirino jihadista non sono finiti i copti, come a Natale e a Pasqua, ma la comunità musulmana sufi, considerata apostata dal radicalismo islamista. Un attacco devastante e ben pianificato: sono 235 i morti e 130 i feriti nell’attentato compiuto ieri durante la preghiera del venerdì nella moschea Al-Rawdah del villaggio di Bir al-Abd, a 30 km dal capoluogo della Penisola del Sinai, Arish.

LE PRIME IMMAGINI mostrano corpi senza vita, distesi sui tappeti insanguinati della moschea, coperti con lenzuola bianche. Un commando è entrato mentre i fedeli pregavano e ha sparato sulla folla mentre un kamikaze saltava in aria. La gente è scappata, ma fuori a bloccare le vie di fuga c’erano altri uomini armati che hanno letteralmente chiuso le strade dando fuoco alle auto parcheggiate. Un’operazione ben organizzata che dimostra il livello di militarizzazione raggiunto dalle milizie islamiste in Sinai.

Secondo fonti dell’intelligence del nord del Sinai, il commando è arrivato a bordo di cinque 4×4 e ha lavorato in anticipo, nascondendo esplosivi intorno alla moschea. Non sono fuggiti subito: «Alcune ambulanze sono state attaccate», aggiungono. «Le forze speciali stanno cercando i terroristi». Chiusa la strada tra Arish e Rafah, estremo oriente egiziano. Sky News Arabic fa sapere che due droni hanno distrutto due dei veicoli in fuga, uccidendo 15 miliziani.

IL PRESIDENTE AL-SISI ha convocato una riunione d’emergenza e dichiarato tre giorni di lutto nazionale. Ha poi parlato alla nazione promettendo vendetta e l’uso della «forza bruta contro queste cellule». E mentre giungevano le condoglianze dei governi di tutto il mondo, al-Sisi riprendeva la narrativa della guerra al terrore, primaria ragione di immunità per i crimini del regime da parte della comunità internazionale: l’Egitto, ha detto, affronta le reti terroriste da solo a favore di tutta la regione e della sua stabilità. «Questi attacchisono il riflesso degli sforzi nella lotta al terrorismo».

PER ORA non ci sono rivendicazioni ma i sospetti cadono sulle formazioni jihadiste attive da anni in Sinai. Tra queste i «Soldati del Califfato», milizia fedele allo Stato islamico e autrice dei più sanguinosi attacchi contro i civili (nel dicembre 2016 gli attentati contro due chiese al Cairo e a marzo scorso quelli contro due chiese a Tanta e Alessandria, durante le messe della domenica delle palme); la «Provincia del Sinai», ex Ansar Beit al-Maqdes, anch’essa parte integrante della rete del «califfo»; Murabitun, legata ad Al Qaeda; e Hasm, formazione comparsa un anno e mezzo fa e di più difficile attribuzione ideologica (responsabile dell’attacco del 20 ottobre contro le forze speciali impegnate in un’operazione contro il gruppo).

LA PRESENZA dei gruppi jihadisti si radica e non arretra nonostante la campagna anti-terrorismo in atto ormai da tre anni e inaugurata dal presidente al-Sisi subito dopo il golpe del luglio 2013.

DA ALLORA IL SINAI è in stato di emergenza – misura allargata a tutto il paese a marzo– ma gli attacchi non cessano. Come non viene meno la capacità dei jihadisti di controllare zone desertiche e comunità urbane – dove in alcuni casi sono in grado di imporre checkpoint e regole di vita quotidiana – e di muovere cellule in tutto il Sinai, spingendole fino alle città della costa occidentale. È del 9 novembre un nuovo «salto di qualità», l’attacco alla fabbrica di cemento Arish Cement di proprietà dell’esercito, che ha ucciso nove lavoratori e costretto le forze armate a introdurre nuove misure di sicurezza per impedire ulteriori interruzioni della produzione.

NEL MIRINO C’È L’ESERCITO, ma anche e soprattutto i civili e le minoranze religiose, dai copti ai sufi fino ai beduini accusati di cooperare con l’esercito. I mesi appena trascorsi hanno visto la fuga di massa delle famiglie copte del Sinai, riparate ad Alessandria, Ismailiya, Assiout, Il Cairo in cerca di una protezione che il governo centrale non sa garantire nonostante le promesse di al-Sisi.

È QUI, IN SINAI, che la popolazione denuncia le politiche del Cairo e il fallimento della guerra al terrore: c’è poco al di là della propaganda, degli annunci che arrivano con cadenza regolare su arresti e uccisioni di terroristi. C’è invece una morsa securitaria che si stringe intorno alle comunità, già di per sé marginalizzate dall’assenza di investimenti, e che subiscono quotidianamente coprifuoco, arresti indiscriminati, restrizioni al movimento.

Durante la visita di papa Francesco in Egitto, poche settimane dopo gli attacchi della domenica delle palme e le nuove misure di sicurezza introdotte dal governo che dispiegò l’esercito in tutti i luoghi considerati sensibili, un attivista egiziano – in condizione di anonimato – riassunse al manifesto la realtà dei fatti: «Il governo teme attacchi dell’Isis e vuole mostrare di avere la situazione sotto controllo. Non è così: se in Sinai l’esercito ha inflitto gravi perdite allo Stato Islamico, ha anche generato altro estremismo perché opprime la popolazione, la danneggia, ne abusa».

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