Vendere libri, tra estetica e commercio
EXPRESS, LA RUBRICA DELLE CULTURE CHE FA IL GIRO DEL MONDO Il mestiere di chi vende libri è circondato da un’aureola dorata, di cui sono stranamente prive le altre categorie commerciali, per quanto utili e produttive, siano scarpe o formaggi. Ma siamo sicuri che lavorare in un negozio la cui merce è composta da parallelepipedi rilegati di carta stampata contenenti parole conferisca uno status speciale?
EXPRESS, LA RUBRICA DELLE CULTURE CHE FA IL GIRO DEL MONDO Il mestiere di chi vende libri è circondato da un’aureola dorata, di cui sono stranamente prive le altre categorie commerciali, per quanto utili e produttive, siano scarpe o formaggi. Ma siamo sicuri che lavorare in un negozio la cui merce è composta da parallelepipedi rilegati di carta stampata contenenti parole conferisca uno status speciale?
Di romanzi e memoir che hanno come eroi librai e libraie ce n’è così tanti da riempire diversi scaffali – un sottogenere in continua espansione che conta ormai i suoi classici. Come La libreria di Penelope Fitzgerald, uscito in originale nel 1978 e tradotto in italiano una ventina d’anni dopo da Masolino D’Amico per Sellerio, quasi il capostipite della famiglia; o La lettera d’amore di Cathleen Shine, un rosa d’autore santificato dal marchio Adelphi che l’ha pubblicato nel 1996 nella traduzione di Domenico Scarpa; o infine 84, Charing Cross Road di Helene Hanff, piccolo romanzo epistolare curato da Marina Premoli nel 1987 per le edizioni di Rosellina Archinto.
Molto amato da lettori e lettrici e trasposto in un film con Anne Bancroft, il romanzo è ora tornato nelle librerie italiane in una nuova traduzione firmata da Giuliana Schiavi grazie a una casa editrice messinese, Bordolibero, nata nel 2021 con intenti chiari: «conoscere e far conoscere autori che, poco o per nulla presenti nei cataloghi degli editori italiani, hanno comunque vissuto e rappresentato le metamorfosi delle forme narrative nel corso del Novecento». Tenendo a mente che nel linguaggio marinaro, «bordo libero» indica il limite di carico di un’imbarcazione e dunque «non la cancellazione di un limite, ma la sua esistenza e variabilità».
Questi titoli, e gli altri che non stiamo neanche a elencare, confermano come il mestiere di chi vende libri sia circondato da un’aureola dorata, di cui sono stranamente prive le altre categorie commerciali, per quanto utili e produttive, siano scarpe o formaggi. Ma siamo sicuri che lavorare in un negozio la cui merce è composta da parallelepipedi rilegati di carta stampata contenenti parole conferisca uno status speciale, che fare il libraio sia una missione o addirittura un’arte?
Ne è convinto Josh Cook, da vent’anni libraio e coproprietario di Porter Square Books a Cambridge, Massachusetts, che qualche mese fa ha – guarda caso – pubblicato per la piccola sigla canadese Bibloasis The Art of Libromancy, una raccolta di saggi su «vendere e leggere libri nel ventunesimo secolo». Definita da Dana Hansen sulla Chicago Review of Books come «il manifesto del libraio progressista», questa riflessione intorno all’elusiva «arte della libromanzia» ruota intorno all’idea che «le librerie non possono essere semplicemente spazi neutrali in questi tempi socialmente ingiusti e politicamente conflittuali», ma «devono contribuire alla lotta contro il fanatismo, il razzismo e le crescenti ideologie fasciste», per esempio «rifiutando di tenere i libri o di ospitare gli incontri dei suprematisti bianchi».
Difficile dire se sia la strada giusta per evitare le polarizzazioni che segnano i nostri tempi (ma forse a nessuno preme evitarle, anzi). Più interessante citare una recensione del libro uscita in questi giorni su Public Books, il cui autore, Kyle Francis Williams, è uno scrittore che – presumibilmente per avere uno stipendio fisso con cui campare – da circa sette anni fa il libraio, una definizione che lui mette fra virgolette, perché «è una sorta di etichetta culturale, un po’ come ‘gallerista’» e che «offusca la realtà che ciò che vi stiamo vendendo è un prodotto». Insomma, scrive Williams citando il filosofo camerunense Achille Mbembe, «poiché le arti e la cultura sono diventate parte integrante dell’economia, la loro capacità di impegnarsi criticamente con le velocità del capitale non può più essere data per scontata» e «gli spazi della cultura non sono più solo spazi estetici, ma anche spazi commerciali».
Una realtà di cui i librai, quelli veri, sono quasi sempre perfettamente consapevoli, ma della quale nei romanzi sui librai, chissà perché, si parla poco.
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