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Generi e critica Il dibattito per la candidatura di «Fuocoammare» in due categorie agli Oscar

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 7 ottobre 2016

La scelta di candidare agli Oscar per l’Italia nella doppia categoria – documentario e miglior film di lingua straniera – Fuocommare di Gianfranco Rosi ha acceso discussioni e polemiche. A parte lo «scivolone» di Paolo Sorrentino che pur essendo parte della commissione ha definito la decisione «masochistica» per il cinema italiano tutto, il gioco dei «favorevoli» e «contrari» è diventato quasi virale e non soltanto in rete.

Al di là delle valutazioni sul film, ciò che l’intera questione ha messo in luce con una certa chiarezza, è che i limiti posti dalle categorie di «genere» – peraltro le stesse dell’Academy – sono più forti di qualsiasi esperienza della visione.
Un documentario non è un film, dicono. E però la storia del cinema è fitta di grandi registi, maestri riconosciuti, che hanno praticato e continuano a praticare il «documentario». Basterebbe pensare a cineasti come Wiseman (a cui verrà consegnato l’Oscar alla carriera), Errol Morris, che col suo The Thin Blue Line (’88) ha capovolto un caso giudiziario fondando un nuovo metodo di racconto della realtà, a Van Der Keuken, Rithy Pahn, Philibert, Avi Mograbi, Eyal Sivan, Claire Simon, Barbara Kopple, Ciprì e Maresco fino a registi più giovani come Wang Bing o Joshua Oppenheimer – e l’elenco è totalmente parziale.

Fare cinema documentario è un allenamento prezioso a quel movimento di invenzione del mondo che avviene davanti e dietro la macchina da presa in un dialogo fertile di realtà e messinscena (come insegna Godard). Uno sguardo a tutto campo che anche qui appartiene a alcuni dei nostri registi più interessanti emersi in questi decenni, penso a Matteo Garrone, Leonardo Di Costanzo, Michelangelo Frammartino, Alice Rohrwacher, Pietro Marcello che nei loro film, come molti altri registi contemporanei mettono in atto un fare cinema potente, fatto di contaminazioni e «tradimenti» fertili delle barriere di genere.

D’altra parte i festival più importanti al mondo, con l’esclusione di Cannes dalla vittoria di Moore, mischiano ormai le categorie. Se allora fosse un problema di linguaggio critico che alla voce «documentario» (penso a varianti che agghiacciano quali «docufilm») riconduce un’idea delle immagini univoca – un po’come la coincidenza tra cinema politico e idelogico? Un documentario deve essere sempre l’illustrazione di qualcosa, perciò parlarne da spettatore «critico» diventa parlare del suo soggetto – meglio se forte e attuale – e mai del «come» lo affronta, dello sguardo che esprime, della sua profondità, del lavoro di regia. Magari tutto questo discutere potrebbe diventare un nuovo punto di partenza. Il cinema intanto è già oltre.

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