Visioni

«Vatican Girl», ricomporre il puzzle è un esercizio a vuoto

Una scena di «Vatican Girl» con il manifesto del 1983Una scena di «Vatican Girl» con il manifesto del 1983

Streaming La serie Netflix sulla scomparsa di Emanuela Orlandi torna sulle piste già note ignorando il lato umano della vicenda. Scritta e diretta da Mark Lewis, con la narrazione del giornalista Andrea Purgatori

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 2 novembre 2022

Il 22 giugno 1983 una cittadina dello Stato Vaticano scompare. Ha quindici anni e si chiama Emanuela Orlandi. Da quel caldo giorno d’estate non si sa più che fine abbia fatto. Una sola cosa è certa: la famiglia sta cercando la ragazza da ormai trentanove anni, tra ostinazione e disperazione, affidandosi alla speranza, costretta a provare ripetutamente il dolore della disillusione, dell’inganno perpetrato con puntuale cinismo.

I GENITORI, le tre sorelle e il fratello Pietro, colui che più si è esposto mediaticamente, hanno sperato che Emanuela riapparisse, che qualcuno si facesse avanti con delle informazioni valide per le indagini. Ma al colpo di scena che sembrava aver stabilito una volta per tutte l’esatto susseguirsi dei fatti, si sostituiva prontamente l’amara constatazione di aver assistito all’ennesimo gioco di prestigio che in modo beffardo ostenta un diversivo, per continuare a celare ciò che non si deve vedere.
Paradossalmente, sono state troppe le voci che hanno indicato un’orma, suggerito una direzione da prendere, indotto gli inquirenti a pensare a un caso internazionale. Rapita per essere scambiata con Ali Agca, l’attentatore di Papa Giovanni Paolo II, sequestrata dalla mafia per ricattare il Vaticano, presa in ostaggio per un regolamento di conti tra IOR, Banco Ambrosiano e Banda della Magliana. E poi, un personaggio importante che le massime autorità cattoliche dovevano per forza di cose coprire. A parte l’ultima ipotesi che potrebbe alludere a un odioso contatto attraverso una molestia, se non qualcosa di ancor più grave, nelle altre teorie il tratto comune è l’assoluta estraneità di Emanuela Orlandi con i suoi rapitori. Presa per caso, come se camminando per strada sotto i suoi piedi si fosse aperta e chiusa repentinamente una voragine.

LA RAGAZZA che suonava il flauto traverso si è trasformata in un fantasma, assente nella realtà quotidiana, presente in tante narrazioni, quasi obbligata ad assumere il ruolo di un personaggio letterario. E tra questi racconti, si aggiunge ora la miniserie documentaria in quattro puntate scritta e diretta da Mark Lewis per Netflix, Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi. Un altro racconto sull’Italia degli anni Ottanta, con lo scrittore e giornalista Andrea Purgatori al quale è affidato il compito di tirare le fila, la voce narrante che riordina con passione le tessere di un mosaico che, a seconda dei punti di vista, contiene delle figure perfettamente riconoscibili o dei disegni, non meno terrificanti, privi di senso.
In questo prodotto, si usano meccanicamente tutti gli strumenti del genere. Si creano ad arte delle aspettative, riproponendo argomentazioni e testimonianze di cui dubitano, a posteriori, gli stessi autori e coloro che partecipano alla serie in veste di esperti. Ampio spazio si prendono Marco Accetti, il presunto «americano» che si auto-definisce il creatore del caso Orlandi e che agisce per una non meglio precisata organizzazione che vuole liberare e liberarsi di Ali Agca; Sabrina Minardi che all’epoca aveva una relazione con Enrico De Pedis, uno dei boss della Banda della Magliana, e che confessa di aver passato dei giorni con Emanuela Orlandi, di fatto ammettendo una qualche complicità con il sequestro; e, infine, la compagna di scuola che dopo anni di silenzio, decide di uscire allo scoperto facendo riferimento a un uomo che avrebbe messo paura alla sua amica. Tre versioni che potrebbero essere fonte d’ispirazione per la trama di una fiction televisiva convenzionale, sensibile al colpo di scena fine a se stesso, meno interessata allo sviluppo dei personaggi. Una serie che esibisce fatti di cui già si conosce preventivamente l’inconsistenza e che vengono presentati come se stessero accadendo qui e ora. Dunque, veri, ma solo fino all’episodio successivo.

Emanuela Orlandi e la sua famiglia, però, non sono i protagonisti di Ventiquattro o di uno dei tanti CSI. Pietro Orlandi e le sue sorelle non hanno potuto elaborare un lutto e nel frattempo si espongono fragilmente ai tumulti di uno spettacolo orribile nel quale è concepibile persino riproporre l’audiocassetta che spaccia la registrazione di un film porno per la voce di Emanuela Orlandi. Un fatto noto del tutto gratuito, soprattutto se messo in scena in un ordine temporale che fa credere alla veridicità della prova. A che serve tutto questo? Forse ad auto-celebrare le opinioni di chi prova l’effimero piacere nel far combaciare i tasselli. Dalla triste vicenda di Emanuela Orlandi si potrebbero trarre due storie. Quella, appunto, di una vittima che è travolta da qualcosa di radicalmente altro dalla sua esistenza. E quella di un gruppo di persone che entra in scena per dare vita a un macabro gioco di ruolo. Riflettere su racconti di vicende umane, insomma, allontanandosi dalla sensazione di essere stati invitati a giocare a Cluedo.

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