Varoufakis: «Solo tante menzogne sulla ripresa greca»
Intervista L'economista di Tsipras: il paese è in piena grande depressione
Intervista L'economista di Tsipras: il paese è in piena grande depressione
Dopo l’annuncio che il 25 gennaio la Grecia tornerà alle urne (fallito il terzo e decisivo voto per il nuovo presidente della Repubblica), la prospettiva di una vittoria di Syriza, la forza della sinistra radicale guidata da Alexis Tsipras e data per favorita dai sondaggi, si fa sempre più concreta. Facendo tremare sia i mercati che l’establishment europeo, che avevano già manifestato il loro disappunto dopo la decisione del primo ministro Antonis Samaras di anticipare a questo mese l’elezione del presidente della Repubblica. I primi mandando a picco la borsa di Atene e facendo schizzare in alto i tassi sui titoli di stato a dieci anni; il secondo augurandosi, per bocca del presidente della Commissione Juncker, che i greci non votino “in modo sbagliato”. Tsipras, però, non ha nessuna intenzione di portare la Grecia fuori dall’euro, e per quel che riguarda il suo piano di ristrutturazione del debito greco, egli non intende colpire i creditori privati ma piuttosto i creditori ufficiali: l’Unione europea e in particolare la Germania. Di questo e altro abbiamo parlato con Yanis Varoufakis, economista molto vicino a Syriza.
La Grecia, che oggi mostra un tasso di crescita economica tra i più alti di tutta l’Unione, viene presentata dai fautori dell’austerità come una dimostrazione dell’efficacia del consolidamento fiscale e della svalutazione interna, che avrebbero reso l’economia greca più efficiente e competitiva. Cosa ne pensa?
Penso che sia una perversa distorsione della realtà. La Grecia è in piena Grande Depressione. Sono sette anni che i redditi e gli investimenti nel paese sono in caduta libera; questo ha determinato una vera e propria crisi umanitaria. E adesso, sulla base di un trimestre di crescita del Pil reale, sono tutti lì a festeggiare la «fine» della recessione! Ma se si guardano attentamente i numeri, ci si rende conto che siamo ancora in recessione, anche in base ai dati ufficiali. La spiegazione è piuttosto semplice: nello stesso periodo in cui il Pil reale è cresciuto dello 0.7%, i prezzi sono caduti in media dell’1.9%. Per chi non lo sapesse, il Pil reale equivale al Pil nominale (ossia calcolato in euro) diviso per l’indice dei prezzi (il cosiddetto deflatore del Pil). Considerando che questo indice è sceso dell’1.9%, e che il Pil reale è aumentato solo dello 0.7%, questo vuol dire che il Pil misurato in termini nominali, ossia in euro, è sceso! Dunque la crescita del Pil reale non dipende dal fatto che il reddito nazionale, in euro, è cresciuto; dipende dal fatto che esso è caduto più lentamente dei prezzi. E ora l’establishment politico, sia europeo che nazionale, vorrebbe vendere ai greci questo piccolo trucco contabile come la “fine della recessione”. Ma non funzionerà.
Pil al -25%, disoccupazione ai massimi livelli dai tempi della seconda guerra mondiale: pensa che questi siano semplicemente gli effetti indesiderati di politiche «sbagliate», o possono essere considerati il frutto di un disegno preciso?
Nessuna delle due, credo. Queste politiche erano le uniche che non comportavano un’ammissione del fatto che l’architettura dell’eurozona è fondamentalmente disfunzionale, e che la crisi era sistemica e non «greca». Ma soprattutto, erano le uniche ad essere compatibili con quello che era l’obiettivo principale dell’establishment: salvaguardare i banchieri da qualunque tentativo di espropriazione da parte dell’Unione europea o degli stati membri. Ed è così che una nazione piccola ma fiera è stata costretta a implementare una feroce politica di svalutazione interna che ha causato e sta causando enormi sofferenze alla popolazione, oltre ad aver fatto lievitare il debito privato e pubblico del paese a livelli insostenibili, e tutto questo per mantenere l’illusione che l’architettura dell’eurozona fosse sostenibile, e per scaricare le perdite colossali delle banche private sulle spalle dei cittadini comuni, dei lavoratori e dei contribuenti. Una volta decisa la strategia, l’hanno poi ammantata di propaganda neoliberista per renderla più appetibile…
Perché i mercati hanno così paura di Syriza secondo lei?
Quello che temono è lo scoppio delle due bolle economiche gonfiate ad arte da Berlino, Francoforte e Bruxelles negli ultimi anni, quella dei titoli sovrani e quella dei titoli di borsa, che avevano lo scopo di alimentare l’illusione della «ripresa greca». Ma questo è il destino di tutte le bolle: alla fine scoppiano. E prima lo faranno meglio sarà, perché ci costringerà a guardare finalmente in faccia la realtà e a darci da fare per migliorare le condizioni di vita di tutti, sia in Grecia che nel resto dell’eurozona.
Pensa che la vittoria di Syriza sia un’ipotesi realisticamente possibile? O ritiene che le forze conservatrici dell’establishment greco – ed europeo – siano disposte a tutto pur di sbarrargli la strada?
Entrambe le cose. Non c’è alcun dubbio che le forze dell’establishment faranno di tutto per fermare Syriza, ricorrendo alle più bieche forme di terrorismo psicologico nei confronti dell’elettorato greco. Ma sembra che questa volta tale strategia, già impiegata con successo in passato, sia destinata a fallire. Una vittoria di Syriza al momento sembra sempre più probabile.
Come giudica l’augurio di Juncker affinché i greci non votino «in modo sbagliato»?
Direi che dimostra un profondo disprezzo per la democrazia, e un atteggiamento neocoloniale che si fa beffa dell’idea secondo cui l’Unione rispetta la sovranità dei suoi stati membri. In teoria, è la Commissione europea che è tenuta a rispondere delle sue scelte di fronte ai cittadini degli stati membri, e non i cittadini che sono tenuti a rispondere delle loro scelte di fronte alla Commissione. E per definizione la Commissione non può esprimere alcun giudizio di merito sull’esito di un’elezione. E non può di certo dire quale sia il candidato «giusto» e quello «sbagliato». Con questa affermazione, Juncker ha fatto cadere ancora più in basso la reputazione della Commissione, già ai minimi storici, e ha allargato ancora di più il deficit democratico dell’Ue. Il suo intervento è stata una delle mosse più anti-europee che si potessero immaginare, in quanto è riuscito a delegittimare in un colpo solo sia la Commissione che l’Unione stessa.
Ci può descrivere in breve i punti principali del programma di Syriza?
In primo luogo, un governo guidato da Syriza farà di tutto per far sì che l’Europa affronti i nodi che finora si è rifiutata di affrontare: la disfunzionalità dell’architettura dell’eurozona, e il fatto che i cosiddetti “salvataggi” della troika – che erano tutto fuorché dei salvataggi – sono stati molto deleteri sia per i paesi della periferia che per quelli del centro, inclusa la Germania. In secondo luogo, si sforzerà di ricostruire e di rimettere in moto l’economia sociale della Grecia per mezzo di un «New Deal per l’Europa» finalizzato a tirare tutta la periferia, e non solo la Grecia, fuori dalla depressione. Infine, si adopererà per riformare sia il settore privato che quello pubblico al fine di incrementarne la creatività e la produttività, e per costruire una società migliore.
Il ritorno alla normalità passa necessariamente per un default su una parte del debito pubblico?
Sì, e questo non vale solo per la Grecia. La Grecia farà senz’altro default a un certo punto, ma probabilmente non lo farà in maniera formale, ma con un taglio del debito greco nei confronti del resto dell’Europa. E a quel punto, poco dopo, seguiranno l’Italia e poi la Spagna e il Portogallo. Di fatto rappresenterà il primo passo verso una specie di unione fiscale: quando uno stato ha avuto in prestito dagli altri e non è in grado di ripagare al tasso concordato, è una specie di unione fiscale, ma una specie terribile, la peggior specie, un’unione fiscale per default.
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