Confrontando un capolavoro degli anni 80, Medicine Show dei Dream Syndicate uscito nell’84, con il loro ultimo disco, Ultraviolet Battle Hymns And True Confessions, si resta colpiti da una certa coerenza del repertorio sonoro tra i due Lp, nonostante siano passati trent’anni e in mezzo ci sia stato un vuoto, un lungo intervallo in cui il gruppo s’era sciolto.
Da quando sono tornati, nel 2017 con How Did I Found Myself Here?, i Dream Syndicate hanno ripreso da dove avevano lasciato, cioè da una variazione sul tema, sul concetto di canzone, che era il presupposto di quel «Paisley Underground» affermatosi nella prima metà degli anni 80, movimento che, in piena sperimentazione tecnologica, elettronica, tornava al rock analogico, chitarristico, psichedelico, guardando ai Velvet Underground, ai 13th Floor Elevators, ai Relatively Clean Rivers, ecc.. Certo, qualche interpolazione sintetica, qualche scoria elettronica si sente negli ultimi dischi, ma perfettamente integrate nel metabolismo della canzone rock.

Steve Wynn
Creo musica perché le persone la ascoltino. Ecco perché consento di registrare i concerti e incoraggio lo scambio, il download e lo streaming

IN APERTURA di questo Ultraviolet Battle, proprio all’inizio del singolo Where I’ll Stand, appare un’efflorescenza, un ghirigoro di synth che sembra essere l’allegra annessione, forse anche ironica, dell’elettronica al tessuto liscio, scorrevole della propria musica.
Ma è un attimo: poi i tasti saranno piuttosto quelli dell’organo, in eco di Manzarek, soprattutto verso la fine, nei brani più arrangiati, My Lazy Mind e Straight Lines che rappresentano la commessura con il disco precedente, The Universe Inside, una sorta di esemplare unico nella produzione dei Dream Syndicate, in cui il modello della canzone era decostruito in favore di brani lunghi, stratificati, ultra-psichedelici fino a incedere, ad un tratto, con passo krautrock.
In Ultraviolet Battle sono le chitarre a essere predominanti (con punte sporche, distorte come in Trying To Get Over) e la voce, magnifica, di Steve Wynn che a tratti ricorda il timbro e la dizione di Lou Reed, quando ad esempio in Hard To Say Goodbye emerge qualcosa di malinconico.
Insomma un impianto sonoro originale e sfaccettato, in cui si sente anche un sostrato di fiati, che tiene insieme cantautorato, rock, pop: una musica che scorre via liscia, tonica, armonica, e che a tratti s’increspa nel senso della Storia, in eco del rock degli anni Settanta, tra Creedence, Velvet Underground e i Dream Syndicate delle origini.