«Vanunu M rapito a Roma Italia il 30 9 86 arrivato a Roma con il volo BA504». La vicenda di Mordechai Vanunu cominciò così, 35 anni fa, con questa scritta nel palmo della mano appoggiata su un finestrino del piccolo bus che lo riportava dall’aula del tribunale al carcere. E terminò 18 anni dopo, il 21 aprile del 2004, quando il tecnico nucleare israeliano lasciò la prigione di Shikma tra gli applausi dei suoi (pochi) sostenitori, tra i quali l’attrice inglese Susanna York e l’ex vicepresidente dell’Europarlamento Luisa Morgantini, che scandivano «Ghibor, Ghibor» («Eroe»), e gli insulti dei suoi (tanti) denigratori che gli urlavano contro «Boghed, ben zonà» («Traditore, figlio di puttana»). In realtà non è mai terminata la prigionia per Vanunu che da quando è uscito dalla cella – in cui rimase in isolamento per 11 dei 18 anni di detenzione – ha provato senza successo a lasciare Israele.

L’aver rivelato al mondo i segreti del programma nucleare israeliano, per Vanunu ha significato la condanna a una vita, anche fuori dal penitenziario, libera solo in parte. Ancora oggi è costretto a rispettare restrizioni negli spostamenti, a non incontrare i giornalisti, e ad affrontare procedimenti penali per presunte violazioni dei termini di scarcerazione. Più di tutto non può vivere lontano da Israele, paese di cui sente di non far più parte al punto da rinunciare a parlare in ebraico e a convertirsi al Cristianesimo. Dal 2004 il tecnico nucleare vive a Gerusalemme est, la zona palestinese della città. Fino a qualche tempo fa lo si poteva scorgere nel bel giardino di un piccolo hotel palestinese o in una nota libreria di via Salah Edin a sorseggiare un caffè. Ora è quasi introvabile e comunque per un giornalista straniero intervistarlo vorrebbe dire l’espulsione da Israele. «Non mi pento, rifarei tutto ma i segreti che ho rivelato (nel 1986) sono superati, non rappresento un rischio per la sicurezza del paese come affermano (le autorità)», ripeteva Vanunu il 21 aprile di 17 anni fa davanti alla prigione Shikma. Poi ha capito che non lo lasceranno mai partire. Perché quei segreti, sì, sono superati ma la sua stessa esistenza resta una denuncia perenne di un programma nucleare segreto – che il mondo finge di non conoscere – e del possesso da parte di Israele, lo dicono gli esperti internazionali, di 100 forse 200 testate atomiche.

In realtà la vicenda di Mordechai Vanunu, ebreo di origine marocchina, comincia molto prima del suo rapimento a Roma messo in atto dal Mossad israeliano. Ebbe inizio negli anni 70 quando assieme al fratello Meir, iniziò a frequentare gli ambienti della sinistra radicale allontanandosi dal padre, un rabbino, che avrebbe voluto per lui un’esistenza da religioso ortodosso. Assunto come tecnico nella centrale di Dimona, Vanunu si rese conto che lì non si conducevano ricerche a uso civile. Dimona era la realizzazione, con l’aiuto della Francia, del programma nucleare segreto voluto dal fondatore di Israele David Ben Gurion e completato dal futuro Premio Nobel per la pace e presidente Shimon Peres. Non poteva rimanere in silenzio. Con una Pentax scattò 58 foto nel ‎Machon 2, un complesso sotterraneo della centrale dove ‎venivano prodotti annualmente una quarantina di kg di plutonio. Poi, a metà degli anni ’80, decise di dimettersi e di lasciare Israele con uno zaino colmo di segreti. In Australia si confidò con un giornalista, Peter Hounan, che lo convinse ad andare a Londra per raccontare tutto al «Sunday Times» che avrebbe poi pubblicato le sue rivelazioni.

Nell’estate del 1986 il Mossad era già sulle sue tracce e un’avvenente spia del servizio segreto israeliano, «Cindy», lo convinse a seguirla a Roma a fine settembre per una romantica vacanza nella capitale italiana. A Fiumicino Vanunu trovò ad attenderlo un presunto amico della sorella di «Cindy» che lo portò in un appartamento alla periferia di Roma. Qui fu drogato e immobilizzato. Qualche anno fa la stampa israeliana ha rivelato che fu portato su di una nave spia israeliana, la «Ins Noga». Pochi giorni dopo sarebbe finito sotto processo di Israele e condannato a 18 anni di carcere.

Si scelse di rapirlo a Roma e non a Londra perché Israele sapeva che l’Italia sarebbe rimasta in silenzio di fronte alle operazioni degli agenti del Mossad già intense da anni nel territorio italiano, incluse quelle armate. Ed ebbe ragione. Il giornalista Peter Hounan consegnò un fascicolo pieno di notizie alla magistratura italiana che, peraltro, aveva già ricevuto un dossier della Digos, ma senza alcun esito. Le conclusioni del giudice Domenico Sica furono disarmanti: Vanunu, a suo dire, aveva «collaborato» al rapimento e quindi non vi era stato alcun reato sul suolo italiano. «Sica era il maggiore esponente della Procura di Roma che a quel tempo era chiamata ironicamente ‘Il porto delle nebbie’, dove tutto veniva affogato» ci racconta la giornalista e saggista Stefania Limiti, autrice ‎del libro “Rapito a Roma” (ed. L’Unità, 2006), «e così fu affogata anche l’indagine su Vanunu. E non fece effetto la foto della mano che rivelava il rapimento avvenuto a Roma. L’Italia non intervenne». E non è mai intervenuta per 35 anni. Un silenzio totale anche quando il tecnico nucleare, anni fa, rivolse più di un appello al governo italiano affinché fosse riportato a Roma, la città in cui voleva vivere una storia romantica e che invece fu l’inizio di un incubo che, forse, non avrà mai fine.