Vanna Vinci, biografia a fumetti per sette amori folli
Intervista L'autrice della «Bambina filosofica» racconta il suo ultimo lavoro: «Parle-moi d'amour», da Feltrinelli
Intervista L'autrice della «Bambina filosofica» racconta il suo ultimo lavoro: «Parle-moi d'amour», da Feltrinelli
Ricco, vario, partecipato. E grazie al cartellone offerto dal Centro Fumetto Andrea Pazienza, il Porte Aperte Festival di Cremona 2021 è anche il posto dove incontrare i protagonisti della Nona arte. Per esempio Vanna Vinci, scrittrice e disegnatrice cagliaritana di nascita ma bolognese d’adozione con una bibliografia fitta di opere al femminile. Eccola a palazzo Fodri dopo la presentazione del suo Parle-Moi d’amour (Feltrinelli Comics, 208 pp. € 26,00), «intervista disegnata» con le sette cortigiane più desiderate della Belle Époque. Un nuovo viaggio tra le dive del passato per un’autrice ormai padrona del genere. «Aida al confine, La Casati e Frida Kahlo sono state dei giri di boa, o di vite, nella mia esistenza», precisa l’autrice. «Sono molto legata a Io sono Maria Callas, perché è senz’altro il mio personaggio più infelice. Per questo le voglio bene. Come di Parle-Moi amo la Belle Otero per la sua vitalità e la sua lucidità».
Croce e delizia, le donne celebri, che si tratti di grandi libertine come quelle del fastoso cartonato Feltrinelli o di grandi tout-court. «A me interessa un certo tipo di essere umano. Quello non conforme, maledetto o spaesato, contraddittorio, a tratti sofferente, a tratti cinico e fatalista. Mi infilo nei personaggi senza giudicare, mi immergo in questa specie di mare senza salvagente». L’immedesimazione comporta anche qualche rischio. «Come mi ha fatto notare l’italianista Andrea Battistini, scrivere una biografia è un atto di vampirismo, che, nel mio caso, l’autrice opera nei confronti della protagonista. Però è vero anche il contrario, l’autrice viene completamente vampirizzata dal personaggio di cui sta scrivendo».
Un lavoro, quello del fumetto, che per Vinci è totalmente personale. «Non ho modelli, non ho fatto scuole o corsi. Sono una selvaggia. Prendo un sacco di appunti e leggo moltissimo. Faccio molte scalette e poi scrivo un testo con dialoghi, descrizioni sommarie delle scene, didascalie. Divido tutto in tavole, tagliando, spostando e rimontando e poi comincio a disegnare».
Il risultato in Parle-Moi d’Amour è una ricostruzione che per ricchezza compositiva, gusto per la messa in scena e commistione fra commedia e dramma rimanda all’approccio del miglior Magnus, arrivando a scrutare i dagherrotipi di fine ’800 come «tableaux vivants» per far muovere le belle d’antan «come ci si muoveva all’epoca». «Un’esigenza dettata dal rispetto per le protagoniste e dal desiderio di evitare che venisse un libro “moderno”. Nel fumetto la freschezza e la naturalezza delle pose dei personaggi è un valore aggiunto. In questo caso, ho cercato di starne lontana per riprodurre pose e caratteristiche di un tempo lontano che era già estremamente erotico nella sua rappresentazione». Miracoli della scuola Bolognese. «Credo che Bologna, in una certa misura, mi abbia fatta. Non saprei dirlo diversamente. Frequentare Luigi Bernardi, Roberto Ghiddi e molta altra gente, è stato fondamentale da molti punti di vista».
Senza dimenticare la rivista cult «Mondo Naif», fucina di talenti che a parte l’autrice classe 1964 ha visto emergere autori come Giovanni Mattioli, Davide Toffolo, Andrea Accardi o Sara Colaone e teatro d’infinite discussioni sui massimi sistemi del fumetto. «Non ci interessava l’avventura, volevano raccontare la vita, le strade e i posti che erano i nostri, la gente che vedevamo in giro, ai concerti e nei bar. La cosa che mi ha sempre appassionato dell’ambiente del fumetto a Bologna, allora, è che tra conflitti e grandi amori c’era molto dialogo da bar e al bar».
Un approccio che fin dall’esordio del 1993 Vinci ha applicato anche al suo lavoro intorno ai generi, con l’horror gotico L’altra parte. «Era una storia di vampiri Anni ’80. Non sono mai stata portata per l’intreccio, pur amando Hammett e Chandler. M’interessano le relazioni interiori, i dubbi dei personaggi, il profondo. Quella storia aveva caratteristiche che anticipavano tendenze successive: la quotidianità, la città italiana come paesaggio, i personaggi «comuni» e lo sgretolamento dell’impaginato. I riferimenti erano Miller, Sinkiewicz e i manga, anzi gli Shojo Manga, che all’epoca erano tabù». Avanti veloce, e si arriva alla Vanna Vinci di oggi, impegnata fra fumetti per adulti e illustrazione «for kids».
Un dualismo che però non comporta fatica. «Non trovo differenze tra piccoli e grandi. Le persone reagiscono e interagiscono, s’innamorano… io ho sempre lavorato per un pubblico di adulti, solo da poco mi sono spinta nel mondo della letteratura per l’infanzia. Ci sono lettrici ultrasettantenni che hanno comprato La bambina giurassica e bambine che hanno imparato le parolacce leggendo (o facendosi leggere) La bambina filosofica». Già, la bambina filosofica: un personaggino nato su un tovagliolo di carta in un pub e subito adottato dalla sua creatrice per il suo spirito allo stesso tempo colto, ribelle e molto punk. Svezzata sulle pagine di «Linus», appare, scompare ma poi ritorna sempre: «Per il mio prossimo libro ho in testa una storia di vampiri… ma prima voglio fare un libro della Bambina Filosofica».
Una questione di cuore, ma anche di testa, come al solito, perché «La bambina filosofica è il mio alter ego». Ma anche perché «l’urgenza di fare i fumetti viene da una perversione, il fumetto, per me, è una malattia mentale». «Pazzo per la pittura», si diceva ai tempi di Hokusai: un calembour sempre attuale.
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