Vanessa e Greta liberate
Siria La conferma del governo nel tardo pomeriggio: «Torneranno presto in Italia». Media arabi parlano di un riscatto di 12 milioni di dollari. Per i gruppi qaedisti la presa di ostaggi serve a fare cassa e rafforzare la propaganda
Siria La conferma del governo nel tardo pomeriggio: «Torneranno presto in Italia». Media arabi parlano di un riscatto di 12 milioni di dollari. Per i gruppi qaedisti la presa di ostaggi serve a fare cassa e rafforzare la propaganda
Cominciata con un tweet e finita con un tweet. Dopo il tam tam sui social network partito alle 17.40 di ieri e lanciato da un account vicino al gruppo qaedista Fronte al-Nusra, nel tardo pomeriggio è arrivata la conferma di Palazzo Chigi, di nuovo su Twitter: «Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere, torneranno presto in Italia». Saranno di ritorno questa mattina: faranno scalo a Ciampino, accolte dal ministro degli Esteri Gentiloni. A breve saranno sentite dalla Procura di Roma.
Si concludono così 5 mesi di prigionia per le due giovani cooperanti lombarde, rapite in Siria lo scorso 31 luglio. A dare per prime la notizia del rilascio sono state fonti vicine ai ribelli. Vanessa e Greta si troverebbero ora in Turchia, pronte al rimpatrio, secondo dichiarazioni della cooperazione italiana in Siria e di attivisti anti-Assad.
Quel confine, tra Turchia e Siria, era quello che avevano attraversato la scorsa estate, illegalmente viste le difficoltà ad entrare in un paese in piena guerra civile. Dopo precedenti esperienze all’estero, erano arrivate alla fine di luglio per portare aiuti umanitari con l’ong Horryaty. Pochi giorni dopo erano scomparse da Abizmu, località vicino Aleppo, da tempo divisa a metà: una parte sotto il controllo di Damasco, un’altra occupata dall’Esercito Libero Siriano e da sacche di islamisti appartenenti al gruppo qaedista di al-Nusra. A rapirle, si era detto in un primo momento, una banda di criminali comuni che le avrebbe poi cedute al Fronte al-Nusra, legatosi da qualche mese allo Stato Islamico da un patto di non belligeranza.
Di loro non si erano avute più notizie, fino al 31 dicembre: in un video di 23 secondi Vanessa e Greta, vestite di nero e a capo coperto, avevano fatto appello al governo italiano, “accusandolo” – com’è ovvio, su spinta dei rapitori – di essere responsabile della loro sorte. Una voce a cui si era aggiunta quella di uno dei leader di al-Nusra, Abu Fadel, che aveva rivendicato il rapimento perché Roma «sostiene tutti gli attacchi contro di noi in Siria».
Ieri notizie sono giunte anche su padre Paolo Dall’Oglio, religioso italiano rapito il 29 luglio 2013 in Siria, dove da anni svolgeva attività di sostegno alla popolazione. Secondo fonti vicine ad al-Nusra (le stesse che hanno dato la notizia del rilascio di Greta e Vanessa), padre Dall’Oglio «è vivo, detenuto in una prigione di Raqqa», “capitale” del califfato.
Più che di un confronto politico con l’Occidente, la strategia della presa di ostaggi ha un significato molto più concreto: il bottino, il riscatto, denaro indispensabile alla strategia dei gruppi estremisti che operano nella regione. Se i servizi segreti italiani non hanno mai voluto rilasciare dichiarazioni, trincerandosi fin da subito dietro un secco “no comment”, i movimenti dietro le quinte sono stati continui. Nessuno ieri parlava di riscatto. E di prove certe non è dato sapere, seppure ieri alcuni media arabi – tra cui la tv satellitare Al Aan di Dubai – abbiano avanzato l’ipotesi di un pagamento ad al-Nusra di 12 milioni di dollari.
Nei mesi passati, più di un miliziano jihadista ha raccontato alla stampa della maggiore “arrendevolezza” di alcuni governi occidentali nel versare un riscatto per avere indietro propri cittadini. L’Italia è uno di questi, una politica avversata dagli Stati uniti (seppur la stessa amministrazione Washington ne abbia fatto uso in passato per veder tornare in patria propri concittadini). E quando ciò non accade le operazioni militari e di intelligence per liberare occidentali nelle mani di gruppi terroristici si è più di una volta conclusa con bagni di sangue, come accaduto a dicembre in Yemen con la morte di Luke Somers e Pierre Korbie.
Le casse di gruppi come al-Nusra e Isis si sono ingrossate a dismisura grazie ai riscatti pagati dopo la presa di ostaggi, usato per stipendiare i miliziani arruolati nelle proprie file. Dietro, un consistente tornaconto economico oltre che di immagine: ai gruppi jihadisti tra Siria e Iraq interessa poco di fare pressioni sui governi della coalizione, che ad oggi non è riuscita a mettere in piedi una seria strategia anti-Isis. Interessano molto di più denaro e propaganda: non sono pochi i nuovi adepti attirati tra le file del califfato e dei suoi gruppi satellite dalla forza del messaggio inviato con i rapimenti di occidentali e dai salari versati con quel denaro.
In un tale contesto la testardaggine con cui Washington chiude la porta in faccia al presidente Assad appare sempre di più controproducente: il confine dei territori occupati da Isis e al-Nusra si allarga, il califfato è a soli 35 km da Aleppo e la sola forza frenante è ad oggi l’esercito di Damasco. L’unico che punta ancora sulla soluzione negoziale è l’inviato dell’Onu, Staffan de Mistura, che ieri ha annunciato il via a 10 giorni di tregua tra esercito governativo e ribelli nella città di Homs, per portare aiuti umanitari e cibo ad una popolazione allo stremo.
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