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Van Halen, caccia al padre

Van Halen, caccia al padreRoy Smeck con il suo Vita-Uke

Sarebbe il re dell’ukulele, Roy Smeck. Di lui si è tornati a parlare in rete dopo la morte di Eddie

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 21 novembre 2020

Con la scomparsa di Eddie Van Halen, avvenuta lo scorso 6 ottobre, se n’è andato uno dei più grandi e innovativi chitarristi elettrici degli ultimi decenni, uno che con il suo stile e la sua tecnica ha per molti versi riscritto l’approccio verso la sei corde. Ma la sua dipartita ha aperto il fianco anche a speculazioni che da boutade sono diventate virali, arrivando quasi a essere considerate reali. Ci riferiamo in particolare all’idea che il vero padre del virtuoso chitarrista di origini olandesi possa essere un altro grande musicista, virtuoso di ukulele, Roy Smeck.
Appena venuti a conoscenza della morte di Eddie Van Halen sul web sono cominciati a circolare vecchi video di questo suonatore di ukulele che utilizzava il cosiddetto two-hand tapping – le corde vengono picchiettate con le dita direttamente sul manico -, tecnica le cui tracce risalgono addirittura al diciottesimo secolo ma che è diventata molto popolare negli ultimi anni con l’avvento del rock elettrico e che sarà appunto uno dei tratti distintivi dello stesso Van Halen; partendo da queste «somiglianze» in molti riportavano accanto ai video di Smeck la dicitura «Ecco il padre di Eddie Van Halen». Da questa innocua frase, che sottintendeva semplicemente il fatto che il rocker potesse aver preso a modello lo stile di Smeck, si è accesa la miccia e si è data rilevanza alla storia, rilanciata – ovviamente senza nessuna prova – in rete.
Nato a Reading, in Pennsylvania, nel 1900, Smeck – soprannominato «The Wizard of the Strings», «il mago delle corde» – da autodidatta, già giovanissimo aveva imparato a suonare una serie di strumenti a corda e non solo, dalla chitarra al banjo, dall’octachord (una lap steel guitar, o chitarra hawaiana, a otto corde) all’armonica, dallo scacciapensieri al suo strumento di elezione, appunto, l’ukulele. Appena poco più che ventenne era solito esibirsi negli spettacoli di vaudeville in giro per gli States, mostrando al pubblico i suoi incredibili virtuosismi tra cui anche quel particolare modo di arrestarsi all’improvviso – ammiccando agli spettatori – per poi riprendere a suonare come se nulla fosse, altro vezzo tipico dello stesso Van Halen.

COME UN MAGO
Durante le sue performance il «mago» era solito non interagire con l’audience, rimanendo in silenzio per tutto il tempo, ma accompagnava i brani del suo repertorio, che andavano dalla musica hawaiana al ragtime al country, ballando freneticamente senza perdere una battuta, così come riusciva a suonare lo strumento dietro alle sue spalle o addirittura pizzicando le corde con i denti (tecniche che abbiamo imparato a conoscere grazie a un altro grande artista, Jimi Hendrix) e con molte altre intuizioni sceniche che infiammavano le folle. La sua fama crebbe poi con l’avvento del cinematografo e in particolare con l’accompagnamento musicale che Smeck registrò nel 1926 per il film Don Juan, il primo a utilizzare il sistema Vitaphone, ossia una tecnica che permetteva la sincronizzazione delle immagini con il sonoro tratto da un disco a 33 giri, sistema messo a punto dalla Warner Brothers. Nel 1928 pubblicò il suo primo disco mentre nel 1933 l’artista fu invitato a suonare alla cerimonia di inaugurazione della presidenza di Franklin D. Roosevelt e, qualche anno più tardi, nel 1937, alla parata per l’incoronazione di re Giorgio VI in Inghilterra. In quegli stessi anni Smeck intraprese anche vari tour che lo portarono a esibirsi con la sua «magica arte» in giro per il mondo, dallo stesso Regno Unito al Giappone, dalla Germania all’Islanda, dalla Groenlandia fino alle Hawaii.
Negli anni successivi fu contattato da Jay Krause, presidente di quella che al tempo era la più grande e importante fabbrica di strumenti degli Stati Uniti, la Harmony Company di Chicago, per mettere in commercio una serie di cordofoni – ukulele, banjo e chitarre – che portassero il suo nome; dopo una disputa legale con la Warner per l’utilizzo della dicitura Vitaphone, Krause e Smeck rinunciarono al termine dando vita a una serie di strumenti, destinati a diventare dei classici – The Roy Smeck Vita-Guitar, The Roy Smeck Vita-Uke ecc. – e che lo stesso Smeck promuoveva lungo il paese con esibizioni e presentazioni all’interno di negozi, teatri e contest vari. Dal grande successo della linea nacque poi la Supertone, destinata alla grande distribuzione della compagnia Sears and Roebuck. Durante la sua lunga carriera Smeck, scomparso nel 1994, ha registrato circa 500 dischi e pubblicato una sfilza di manuali e songbook; nel 1976 la scomparsa etichetta Yazoo ha realizzato una retrospettiva in vinile del suo repertorio dal titolo inequivocabile: Roy Smeck-Plays Hawaiian Guitar Banjo Ukulele and Guitar 1926-1949.

QUATTRO CORDE 
Tornando invece al presunto rapporto tra Smeck e Van Halen, c’è da rilevare come tra i musicisti contemporanei che hanno citato il vecchio virtuoso di ukulele come un’influenza fondamentale sulla loro arte troviamo Leonard Cohen che all’età di dieci anni imbracciò lo strumentino a quattro corde proprio spinto dalla passione per la musica di Smeck, mentre risulta che Van Halen non ne abbia mai fatto menzione; semmai il grande chitarrista ha sempre dichiarato di essersi ispirato alla tecnica di un altro grande della sei corde, Steve Hackett dei Genesis, il quale in un’intervista del 2012 ha accreditato sé stesso come colui che ha portato la tecnica tapping nei dischi, sebbene sia noto che il primo a servirsene in una registrazione fu Jimmie Webster nel suo disco del 1959 Webster’s Unabridged.
Insomma la storia ci racconta come sia facile far circolare notizie spesso prive di fondamento, è certo però che Eddie Van Halen debba molto proprio al padre, quello vero, Jan Van Halen (e basterebbe vedere una loro foto per non avere dubbi in merito alla paternità). È infatti noto come a instillare il germe dell’amore per la musica ai fratelli Van Halen – Eddie e Alex, batterista della band che portava il loro cognome – sia stato proprio il genitore, Jan. Nato in Olanda nel 1920, affascinato dalla musica sin da adolescente, fu presto considerato tra i migliori sassofonisti e clarinettisti in patria, suonando in varie orchestre jazz fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Alla fine del conflitto era tornato in Olanda dopo una parentesi in Indonesia dove conoscerà quella che sarebbe diventata sua moglie e madre dei due figli; poi nel 1962 la famiglia Van Halen emigrerà in California dove Jan proseguirà la sua carriera tra alti e bassi. Al padre, quello vero, Eddie ha riconosciuto il merito di averlo influenzato nelle scelte e in un’intervista rivelerà: «Penso che debba a lui il desiderio di fare cose mie, era un tipo pieno di sentimento. Suonava il sax e il clarinetto come un figlio di puttana!». Nel 1972, due anni prima che i figli formassero la loro prima band, i Mammoth, Jan Van Halen perderà un dito della mano in un incidente, evento che lo costringerà a limitare i suoi impegni nella musica ma dieci anni dopo riuscirà a realizzare il sogno di una vita, registrare un brano in un disco, perdipiù con gli stessi Eddie e Alex. Il brano era la cover di un pezzo del 1924 di Margaret Young, Big Bad Bill (Is Sweet William Now) e apparve sull’album dei Van Halen Diver Down. Jan è scomparso, per problemi cardiaci, nel dicembre 1986.

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