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Valerio Zurlini, visioni perdute

Valerio Zurlini, visioni perduteZurlini e Delon sul set di "L'ultimo giorno di quiete"

Festa del cinema di Roma In occasione della retrospettiva, tante le riletture ancora da fare su un regista non valutato pienamente

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 22 ottobre 2016

Quello che è certo è che del cinema italiano vi sono molte più cose da scoprire di quelle scoperte, e ciò vale non solo per gli autori considerati minori ma anche per quelli già seguiti con attenzione. Il caso di Valerio Zurlini è particolarmente emblematico. All’inizio degli anni ’60 la critica non gli negò importanza, pur collocandolo a un livello un po’ inferiore ai cineasti più celebrati. Ma dopo la stima per i suoi tre film Titanus (Estate violenta, La ragazza con la valigia, Cronaca familiare), culminata con il Leone d’oro a Venezia per l’ultimo, la sua opera successiva fu seguita con la sensazione di una prolungata crisi dell’autore, che sarebbe stato incapace di restare al livello precedente. Nemmeno la critica più avanzata, che ebbe il massimo riferimento in Rossellini e seppe far propri Cottafavi, De Seta, Olmi, fu capace di cogliere il valore di Zurlini, visto in una sorta di triade tardo-calligrafica con Visconti e Bolognini: giudizio sbagliato anche per costoro ma particolarmente per Zurlini, di cui ogni visione odierna rivela una forza di messinscena tra le massime.
LA PRIMA NOTTE DI QUIETE
Nemmeno la «giovane critica» successiva (che riscoprì seppur con molti equivoci Matarazzo, che iniziò a occuparsi del cinema degli anni ’30 senza marchiarlo aprioristicamente, che colse l’importanza di Risi e Comencini) seppe entusiasmarsi per Zurlini: se non forse per il suo spiazzante film dell’inizio degli anni ’70, per la rinata Titanus, La prima notte di quiete: film cui molta critica ufficiale riservò una scettica attenzione di stima ma a cui il pubblico tributò un grande successo. Furono in pochi a non vedere in questo successo segni di compromesso ma piuttosto di riaffermata forza: va reso onore all’entusiasmo con cui ne scrissero Pietro Bianchi, Alberto Moravia, Oreste Del Buono, Gian Luigi Rondi. E in Francia Paul Vecchiali, che già ammirò Cronaca familiare e che eleggerà Zurlini a massimo cineasta italiano. Chi scrive può rivendicare di aver posto questo film tra i «filmsanti» italiani nel Patalogo di Gianni Buttafava, il quale vi virgoletta una mia dichiarazione che peraltro considero datata essendo riferita al carattere di genere, melodrammatico del film. La pur utile sensibilità verso il genere fu gestita un po’ al ribasso dalla «giovane critica», vedendo in Matarazzo la popolarità ma non l’autorialità e la tensione di messa in scena, e non sapendo cogliere in La prima notte di quiete la rivelazione di un autore da abbracciare. Infatti sul successivo Il deserto dei tartari si tornò ai pregiudizi verso l’apparente confezione, e quando poi Zurlini come giurato a Venezia litigò con Carné contro Querelle de Brest di Fassbinder, non capimmo che in questo scontro c’era il segreto di uno Zurlini già morente che sfidava il mondo a odiarlo (mentre Carné ancora sperava di esserne amato): quella vicenda, anche se oggi tendiamo a ridimensionare un po’ Fassbinder, fu un momento alto della storia del cinema, e di come gli autori possano incontrarsi con altri in rapporti di amore-odio.
LE INTERVISTE
Sta di fatto che io per primo non seppi cogliere quegli anni ’70 nella possibilità di incontrare Zurlini. Non a caso le interviste più belle con lui, di apocalittico pessimismo, comparvero in riviste più tradizionali, da quella in «La rivista del cinematografo» del 1968 con titolo «Per Valerio Zurlini il cinema italiano è morto», a quella postuma in «Cinemasessanta» del 1982 («Produttori italiani = Hiroshima»). Questo senso di morte del cinema italiano ricorda una frase di qualcuno che negli stessi anni ’70 diventò da esule anche uno dei grandi cineasti italiani, Stavros Tornes («Quando giravo a Cinecittà il cinema italiano era morto»).
La più bella conversazione con Zurlini è quella estesa e appassionata del forse unico cineasta che ne fu allievo, Gianni Da Campo, pubblicata postuma in «La cosa vista» nel 1988, quando questa rivista non era più diretta da me. Spero di essermi almeno in parte riabilitato realizzando nel 2012 ai Mille occhi quella che rimane la più ampia personale del regista, alla presenza di Vecchiali e dell’ultima compagna del regista Marie-Françoise Brouillet, e proseguita con postille nelle due edizioni successive del festival, anche in coincidenza con la retrospettiva Titanus di Locarno, che contenne tutti i film realizzati dal regista per la casa e gli interventi di Giancarlo Giannini e ancora di Vecchiali. Le attenzioni verso Zurlini dopo l’improvvisa morte nel 1982 erano iniziate con un omaggio del Circuito cinema di Venezia e proseguirono con un numero considerevole di volumi, alcuni legati ai restauri della Philip Morris e alla collana della Casa del Mantegna di Mantova curata da Alberto Cattini. Il volume edito da Affinità elettive nel 2011 contiene tra gli altri un importante saggio di Anton Giulio Mancino sul sottovalutato Seduto alla sua destra in riferimento a figure eretiche del cattolicesimo come Aldo Capitini. Zurlini è diventato con La prima notte di quiete anche oggetto di culto in un tormentone giornalistico di Antonio D’Orrico sul settimanale illustrato del «Corriere della sera». Ma tutto ciò non smentisce che del regista vi siano più cose da scoprire di quelle già notate. Oltretutto, il bellissimo libro postumo del regista, Gli anni delle immagini perdute, ha avuto una recente riedizione parziale che malauguratamente demolisce il montaggio del regista il quale inseriva nel racconto i testi dei propri soggetti non realizzati.
LA RETROSPETTIVA A ROMA
La retrospettiva dedicatagli ora dalla Festa del cinema di Roma, realizzata insieme alla Cineteca Nazionale, ha auspicabilmente il merito di far incontrare una grande opera d’autore con molti nuovi spettatori. Avremmo però confidato che si affrontasse anche il problema delle varianti nelle versioni dei film e che fosse l’occasione di rendere finalmente disponibili le copie mancanti di alcuni film.
Le varianti riguardano in particolare La ragazza con la valigia e Cronaca familiare su cui la rassegna ha deciso di programmare le sole versioni licenziate dall’autore per la distribuzione italiana, benché a Trieste e a Locarno si sia segnalata la almeno pari importanza della versione francese del primo (il cui doppiaggio curato da Pierre Cholodenko include le voci di Claudia Cardinale e Jacques Perrin, doppiati nella versione italiana) e del primo montaggio per Venezia del secondo film, con sequenze rimaste poi inedite in sala.
La questione delle copie riguarda in particolare Seduto alla sua destra, di cui ci si rassegna a proiettare la copia di Cinecittà International priva della dedica iniziale a Pier Antonio Quarantotti Gambini che è tra le chiavi più sorprendenti e precise del film. Inoltre non ci si è posti il problema di ristampare i rushes dell’ultimo film incompiuto, Di là dal fiume e tra gli alberi, proiettati un’unica volta nella prima retrospettiva dedicata al regista dal Circuito Cinema di Venezia e poi rimasti dispersi ma probabilmente ristampabili nel laboratorio di provenienza.
LA TETRALOGIA
Certamente, per sentire l’urgenza di queste operazioni come parte essenziale di un omaggio retrospettivo, bisognerebbe far propria la consapevolezza che, dopo lo splendido trittico Titanus (preceduto dall’esordio imperfetto – in modo interessante – di Le ragazze di Sanfrediano e da notevoli cortometraggi), l’opera successiva di Zurlini non fu in nulla inferiore. Ritengo che la «tetralogia» che segue, prima del ritorno Titanus di La prima notte di quiete, sia anzi una punta assoluta del cinema italiano. Il primo tassello è un film collettivo (ahimé omesso nella rassegna romana) in cui l’impronta zurliniana si rivela fondamentale: L’Italia con Togliatti del 1964. Vi seguono tre grandi lungometraggi, Le soldatesse, Seduto alla sua destra e la regia televisiva La promessa che s’intreccia con un’epoca di regie teatrali tutta da studiare. Questa versione televisiva del dramma sovietico di Arbuzov, con finale dreyeriano, è tra le opere più rivelatrici su tutta la vicenda sovietica, intrisa di tragico zurliniano (la scomparsa di Kirov, la consapevolezza che «noi siamo solo quelli che non sono morti») e segue magnificamente il film sulla morte di Togliatti, quello sulla Resistenza greca al femminile e il film invece tutto maschile ispirato a Lumumba, che quasi tutti considerano un allungamento mancato dell’originale progetto d’episodio di quello che divenne Amore e rabbia. Oggi riscoprire Zurlini significa soprattutto partire da quest’aurea tetralogia, dentro cui Seduto alla sua destra emerge nel 1968 come uno dei grandi film del vertice cinematografico che furono gli anni ’60 (Gertrud, Lilith, Young Cassidy, L’età del ferro…), un film che inizia come Francesco giullare di Dio, si consente persino di chiosare Laurel e Hardy e di attraversare con la complicità di Kim Arcalli molte icone del cinema (persino Barbara Steele su una parete di sfondo) e si conclude in uno dei finali più liberi, di fuga dalla morte, del cinema di ogni tempo: da cui si avvierà la «teologia negativa» dei due film finali.

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