Valerio Magrelli – francesista, poeta d’ironia e pietas – al papà Giacinto ha dedicato Geologia di un padre. Le sue pagine, come per offrire respiro eterno al sentimento del tempo, intrecciano sequenze liriche con la notizia del cranio rinvenuto da Italo Bittiddu in Ciociaria, a Ceprano, nel 1994. Cranio che, in occasione del trentennale, il 14 marzo 2024 è stato esposto per la prima volta nel museo preistorico della vicina Pofi, paese d’origine di Giacinto.

«Dai giacimenti di Ceprano, Arce, Anagni, Castro dei Volsci provengono manufatti in pietra e rare faune che confermano la presenza dell’uomo nell’Italia centrale tra un milione e seicentomila anni fa. Segue la fase successiva, caratterizzata dalla presenza di manufatti litici più elaborati, in cui assume particolare significato tipologico e cronologico l’amigdala». È da queste informazioni trascritte da internet che Magrelli – il cui primo scritto ufficiale «con la natura fossile del bimbo» risale alla quinta elementare e riguarda l’osso occipitale – costruisce poesia. Amigdala è anche un sinonimo di tonsilla. E quindi l’archeologia si fa psicologia della storia, cazzuola archetipica per scavare sottopelle, nella memoria in frantumi di un padre e nel tessuto profondo della provincia arcaica e polverosa.

Quando ha scoperto l’efficacia mitopoietica dell’archeologia?
All’origine c’è un incidente in motocicletta. Tipica situazione mia: ero fermo, chi si muoveva mi venne addosso. Ottenni un risarcimento, due protesi, la dispensa dal servizio militare. Studiai un anno cinema alla Sorbona; tornai a Roma e mi classificai ultimo a un concorso per il Centro sperimentale di cinematografia. Insistetti con mamma: volevo continuare con i film. «Fellini andrebbe bene?», mi chiese lei. Era una pediatra omeopatica e lavorava in una clinica di piazza Navona diretta da Antonio Negro: il regista era tra i pazienti. Una raccomandazione e, nel 1976, due mesi di Casanova. Non parlai mai con lui: avevo diciannove anni, portavo il caffè, osservavo. Mi telefonò, però, quando lesse le mie poesie.
Poi, nel 2010, Laterza mi disse di avere dei disegni di Fellini e mi propose di ricavarne un libro. Ecco qui un mistero della memoria: «Io Fellini non lo conosco». Se ricordai, fu per l’omeopatia. Fellini era per me uno «sciamano di famiglia» e tale fu il titolo che diedi al saggio: lo sciamano è lui, o forse Negro. Nella prima parte si parla di archeologia esoterica.

Cosa c’entra con Negro?
Nel 1932 iniziò a frequentarsi con l’omeopata Evelino Leonardi. Un tipo che si definiva «medico pitagorico». Per un periodo aveva curato D’Annunzio; era amico di Alberto Carlo Blanc, lo studioso dei neandertal di Grotta Guattari. Leonardi vaneggiava di un’Atlantide ciociara, da identificare nella Tirrenide del Circeo: i suoi abitanti, fuggiti dal maremoto fatale, avrebbero fondato l’Egitto dei faraoni. Le sue follie sarebbero confluite nell’archeologia medianica della radiomante Maria Matoni, ma anche nell’archeologia subacquea di Costantino Cattoi, che nei fondali si mise a cercare le vestigia di Tirrenide.

Leonardi si dilettava di para-etimologie: da lestra, termine che indica una tipica capanna pontina, arrivò ai lestrigoni di Omero. E nel villino Blanc di Roma allestì un museo di «petrefatti»: massi di diverse dimensioni «composti da materia vivente pietrificatasi» e trovati sulle balze del Circeo. L’uomo era fatto di luce; poi la pietra lo uccise, in base allo stesso processo che porta ai calcoli renali e all’arteriosclerosi. Questo era Leonardi.

In quale ambiente culturale si inserivano le sue divagazioni?
Molti intellettuali ragionavano così. Secondo Max Müller, un antropologo tedesco cui si ispirò Mallarmé, il primo suono emesso dall’uomo fu diu – luce -, da cui Dio, Giove, Giano. Nelle Aberrazioni di Baltrušaitis, Parigi deriverebbe da Paride o Iside. E Leo Frobenius suggerì affinità tra le culture dell’Africa occidentale, dell’Egitto, dell’Etruria.

Il 6 luglio 1971 Negro firmò una lettera che dal Times un gruppo di cristiani tradizionalisti indirizzò al papa. L’obiettivo – raggiunto – era salvare la messa in latino. Tra gli altri firmatari, oltre a Ettore Paratore e Cristina Campo, c’erano Agatha Christie e Graham Greene, Harold Acton e Robert Graves. A Fellini un simile ambiente intrigava per l’attenzione rivolta agli archetipi: era un autodidatta, il che gli conferiva immensa libertà, immensa ingenuità.

Anche a lei interessano gli archetipi?
Certo. Se penso alla preistoria, vedo immagini. Ho composto poesie sul fascino della roccia. E una prosa ispirata alla vicenda dello scienziato russo Mazur, che oltre il circolo polare scese nel Pozzo di Kola fino a dodici chilometri di profondità. Dopo diversi incidenti, scrissi il racconto l’Anti-Mazur, con l’idea del russo che scava in fondo alla propria coscienza, mentre io cerco di uscire dalla mia oscurità.
Una poesia parla di un ferramenta: sul retrobottega, a Largo Argentina, c’era la terra battuta. Rimasi impressionato per quel contatto inatteso con un universo inferiore. Siamo al centro di Roma, ma un verso recita: «sta al confine degli inferi». Il mio secondo libro si chiama Nature e Venature: una paronomasia, un gioco di parole che rimanda alla verticalità. Il passato è una verticalità nella storia.

Lo sono anche quei bagni pubblici che compaiono con frequenza nelle sue poesie…
Lì torniamo a Duchamp, al suo fare arte con carattere di preistoria. Che scoprii piuttosto in Ciociaria. Ero a un consiglio di dipartimento, quando a un collega confessai che volevo visitare il paese di mio padre. Lui affermò sicuro: «Ovviamente vai al museo». Mi si spalancò un mondo, perché non ne ero a conoscenza. Così, un caldo maggio, presi il treno e scesi alla stazione di Pofi, dove mi accolse Bittiddu. Il titolo del libro doveva essere L’Uomo di Pofi, ma venne bocciato da tutti: mia moglie, i figli, l’editore. Intitolai allora così l’introduzione, che feci fare a mio padre. Muta, tuttavia, perché era morto. Misi perciò i suoi disegni. Meccanismi, tempietti: era un fedele di Borromini.

In un’intervista, anni prima, mi avevano chiesto che rapporto avessi con lui. Ottimo – risposi – se non fosse che è un uomo del Pleistocene. Si offese. Ma era soltanto una questione di generazione. Mio padre mi aveva mandato alle colonie, a nuoto.

Le acque sommerse hanno qualcosa in comune con i millenni sepolti?
Emanano la stessa inquietudine. Ho giocato a pallanuoto, sono andato tanto in barca. Fare il bagno al largo spaventa, senza alcun motivo. Una volta mi tuffai da un trampolino di dieci metri. Ancora lo ricordo. Provai anche parapendio. L’insegnante, terrorizzato dalla mia paura, mi propose di scendere subito. Rifiutai: volevo godermi quel terrore. Non riesco invece a far volare un aquilone. Mi prende una fitta al cuore. Ho le vertigini se lo vedo salire.

Nella scena iniziale di un romanzo di McEwan c’è una mongolfiera. Alcune persone tentano di trattenerla. Sembrano già sapere cosa sta per accadere. Di fatti accade: la mongolfiera decolla e un uomo ci resta attaccato.

E lei avverte vertigini se volge lo sguardo indietro alle ere trascorse?
In Sterminate Antichità, lo storico della filosofia Paolo Rossi nota come, dopo il Cinquecento, il mondo si sia dilatato non solo sugli oceani, ma anche lungo l’asse temporale. Bisogna capire lo sgomento della mente umana di fronte a tale smisurato ingrandimento. Eravamo abituati a vivere nel Mediterraneo, tra i nonni. Poche generazioni e si arrivava a Cristo. Poi venne l’archeologia.

Quindi dilatazioni maggiori, all’interno della materia. Un turbamento perfettamente colto da Brecht: Galileo invita i professori a guardare nel cannocchiale per osservare le macchie della Luna, ma essi rifiutano. È questa la descrizione dell’ideologia: nemmeno si vuole entrare nella prospettiva di poter mettere in discussione una propria verità. Allo stesso modo qualcuno, per rassicurarsi, cerca un suolo sacro da cui proverremmo. A costo della falsificazione, accade di fingere – per esempio – che tutto venga dal Circeo.