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Valerio Adami, stesure piatte ordinate dal lapis, lampada filosofica

Valerio Adami, stesure piatte ordinate dal lapis, lampada filosoficaValerio Adami, «Penthesilea» (1994), collezione Adami, su concessione dell’Archivio Valerio Adami

A Milano, Palazzo Reale Perché Valerio Adami a un certo punto decise di non datare più? Perché un libro di istruzioni per navigare all’interno delle sue opere, «sinopie»? E quale ruolo ha attribuito al disegno!

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 28 luglio 2024

Perché alla fine degli anni ottanta un artista affermato come Valerio Adami decide di non datare più i suoi quadri? Perché poi, a inizio di millennio, pubblica un libro in cui fornisce istruzioni più o meno enigmatiche per navigare all’interno delle sue opere che titola Sinopie? E soprattutto quale natura attribuiva al disegno, matrice indiscussa di ogni sua intuizione figurativa? Sono domande importanti per provare a circoscrivere la figura di questo inclassificabile protagonista dell’arte dell’ultimo mezzo secolo.
Cominciamo dalla terza, la più sostanziale. Il disegno per Adami è pratica al confine tra esercizio artistico e filosofia. Lo testimonia la folgorazione giovanile davanti al Prometeo di Oskar Kokoschka, Biennale di Venezia 1952: «L’incontro a Venezia con il Prometeo di Oskar è stato, per quel ragazzo che ero, la rivelazione di come la pittura poteva ricongiungersi alla filosofia, il disegno analitico e la figurazione sono forme del pensiero, le sfide del vedere quella nuova pedagogia per l’educazione dei nostri occhi». Rivelerà altrove che tra le sue mani la matita è «una lampada che illumina nel buio». E di preferire il termine lapis, «che era la pietra degli alchimisti».

È dal disegno che si genera, come per un sortilegio, la visione figurativa, frutto di un lavorìo dove la gomma assume il ruolo cruciale di governo del processo. Il disegno è una disciplina rigorosa, come dimostrato anche dalla regolarità del formato dei fogli, dove accade che il «visivo diventa pensiero e il pensiero torna visivo», in quanto disegno e immaginazione «sono fratelli gemelli». Quanto al quadro, esso si genera inderogabilmente dalla matrice di un disegno, che viene di fatto pantografato su scala più grande sulla tela. Il trasferimento in pittura avviene mettendo al riparo quella matrice da interferenze gestuali o materiche. Ecco dunque le stesure piatte, dove il colore squillante e uniforme viene a occupare disciplinatamente le aree delimitate dalle linee ben marcate del disegno.

Come aveva detto Hubert Damisch, un pensatore suo grande amico, in Adami «la pittura si distingue dal disegno come la mostratio dalla dimostratio». In quanto mostratio, alla pittura si adatta bene la pratica semplificatrice e sintetica della pop art, anche se approccio e processo sono antitetici alla pop art. La superficie è infatti un meccanismo depistante che rimanda alla «sinopia», come Adami ha voluto ribattezzare il concatenarsi di suggestioni e di pensieri che stanno all’origine di ogni sua opera. Se la pop art è tutta unidimensionale e schiacciata sul presente, la pittura di Adami è invece ecletticamente senza tempo, risucchiata da mitologie, classiche o del tutto personali.

Forse per questo Adami a un certo punto del suo percorso decide di non datare più le sue opere, un’operazione coerente, di stampo dechirichiano. Anche lo sviluppo stilistico è neutralizzato, perché l’intenzione è «inventare nuove forme senza cambiare la propria, senza nulla perdere di sé». In occasione di una bella mostra a Verona nel 2000, Adami aveva voluto esporre i suoi quadri secondo un ordine che non rispettava la cronologia. Cronologia che è comunque saldamente affidata ai disegni, che invece puntigliosamente registrano anche il giorno di esecuzione.

Queste premesse per «entrare» nella mostra che Milano dedica al (come da sottotitolo) Pittore di idee, accolta negli spazi di Palazzo Reale, insolitamente luminosi per la felice scelta di liberare le finestre affacciate sulla fiancata del Duomo; una mostra pensata a sigillo di un importante percorso che ha portato alla costituzione di un Archivio e al rilascio di un sito dedicato all’artista. A Milano Adami è legato in quanto, pur nato a Bologna nel 1935, vi si era trasferito presto qui con la famiglia, facendo gli studi al liceo gesuita Leone XIII e iscrivendosi poi a Brera. Ma già dagli anni sessanta la sua geografia si fa internazionale e policentrica: gira il mondo, apre di volta in volta studi a Londra, Parigi o New York, intrecciando decine di rapporti con artisti, filosofi, intellettuali: già nel 1964 ha una sua sala a Documenta III. In Italia il suo rifugio era la casa-falansterio di Arona dove trascorreva le estati con l’amatissima moglie Camilla.

La mostra di Palazzo Reale, curata da Marco Meneguzzo (fino al 22 settembre), segue a grandi linee un percorso cronologico che parte dalle prime opere, segnate da influssi del realismo esistenziale milanese e dall’amicizia con Bepi Romagnoni. Sono come scosse telluriche, attraversate anche da tocchi di ironia, che presto lasciano spazio a un assestamento che ha già connotati definitivi: nel 1966 dipinge infatti Henri Matisse che lavora a un quaderno di disegni, grande opera, costituita da tre tele assemblate, baldanzosamente programmatica e ispirata a una foto del grande maestro con taccuino in mano e modella nuda in posa: foto che faceva da copertina al catalogo della personale Pictures and connexions alle Gallerie Schwarz e Marconi. Le matite gialla e rossa si avventurano in una performance erotica: per Adami nella meccanica del disegno è sempre presente anche questa componente.

Altro capitolo clou nella traiettoria dell’artista è quello dei ritratti dei campioni della sua mitologia intellettuale. Dominano Nietzsche, Wagner, Leopardi, ma dai viaggi indiani spunta anche un Gandhi. Sono volti su grande scala, volti-monumento, dove l’energia grafica del disegno si fa sismografo non retorico di un’interiore tensione drammatica. Purtroppo in mostra soffrono, stipati in uno spazio troppo ristretto che ne soffoca la forza icastica. È un limite di tutta la seconda parte della mostra, dove l’affollamento di opere penalizza un artista che invece, proprio in virtù di quegli intriganti dispositivi sottotesto che originano le sue opere, chiede pause per riuscire a risucchiare l’osservatore nelle sua trame. Adami è artista immediato e insieme sofisticato, e forse ha bisogno di strategie espositive diverse, che tengano maggior conto di quelle tre domande di cui si è detto all’inizio.

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