Il discorso attorno alla Olivetti vive spesso all’interno di un fraintendimento, figlio in particolare della visione che oggi si ha di quella straordinaria fabbrica e del pensiero che seppe portare all’interno della società italiana già con il fondatore Camillo e, ancor di più, con il figlio Adriano. Una visione che troppo spesso tende a scindere l’utopia culturale promossa dalla Olivetti con una realtà produttiva che seppe precorrere fortemente i tempi, infrangendo le antiquate logiche industriali del Novecento.

OLIVETTI FU INFATTI un’azienda con prodotti innovativi, frutto di una visione tecnologica orientata sempre alla ricerca, ma anche di uno sguardo industriale che seppe riformare funzionalmente l’organizzazione della fabbrica. Quelle linee produttive restano tutt’ora un esempio insuperato di organizzazione efficiente, capace di offrire una ottima qualità del lavoro e attivando un pensiero in grado di trasformare la fabbrica in un elemento migliorativo e partecipativo della società. Parte fondante di quella comunità utopica teorizzata da Adriano Olivetti e perseguita fino allo stremo delle sue risorse.
E così oggi in cui appare spesso sensato dire che uno Stato vada gestito come un’azienda è ancora più utile tenere tra le mani il prezioso volume, Olivetti. Storie da una collezione di Alessandro Santero e Sergio Polano (Ronzani editore, pp 336, euro 50) che capovolge quell’affermazione così avventata e restituisce nella pienezza di oltre cinquecento immagini cosa significhi immaginare e produrre un’identità che fu il segno di un’idea diversa di comunità.
Il volume si apre con tre saggi di Sergio Polano, di cui uno inedito e necessario a inquadrare il percorso storico e culturale della Olivetti. Alessandro Santero offre invece preziose note e accurate didascalie alle immagini che sono il vero cuore del volume. Dalla divulgazione interna dell’azienda a quella che fu invece l’immagine pubblica, prodotta dalle campagne pubblicitarie, è evidente il connubio che lega il prodotto alla sua comunicazione.
Si prenda ad esempio forse uno degli elementi più simbolici della Olivetti, la macchina da scrivere portatile Valentine, disegnata da Ettore Sottsass e progettata insieme a Perry King e Alberto Leclerc. Prodotta nel 1969 rappresenta forse l’apice della visione olivettiana che, orfana da quasi dieci anni di Adriano Olivetti (scomparso nel febbraio del 1960), è ancora un punto di riferimento dell’innovazione industriale e dell’identità culturale italiana.
La campagna pubblicitaria viene affidata a Roberto Pieracini e a Milton Glaser (non ancora noto per il suo cuore newyorkese che vedrà la luce solo nel 1976) e punta fortemente sulla leggerezza, la forza dei colori (il più noto è il rosso, ma verrà prodotta anche in bianco e blu per il mercato francese e verde per quello tedesco) e, in generale, per una portabilità che significa alto contenuto tecnologico e scelta innovativa dei materiali.

CON UNA STRUTTURA in resina termoplastica che permette leggerezza e anche un contenimento dei costi, Valentine risponde alle esigenze di un pubblico giovane a cui è particolarmente rivolta. Ai testi della campagna pubblicitaria collabora anche il poeta Giovanni Giudici. Un vero e proprio processo ideativo collaborativo capace di mettere attorno al medesimo tavolo (e prodotto) alcune tra le più eclettiche menti di allora, dando forma a una forza attrattiva che andava oltre il prodotto, facendo di una macchina da scrivere un oggetto pop: esattamente come una penna biro, ma anche come un’opera di Andy Warhol.
Moltissimi sono gli artisti che negli anni si sono succeduti e numerosi gli ingegneri che con loro hanno dialogato dando forma a un’utopia che fu reale e pragmatica. Un umanesimo felice e sostanziale capace di liberare energie e visioni. Un movimento che ancora oggi quel marchio (elaborato tra il 1946 e il 1947 dal grafico Giovanni Pintori) è in grado di fare proprio per la sua forza evocativa che contiene sostanza e sogno, l’una intrecciata all’altro.