«Destinazione non umana» È il titolo dell’ultima pièce di Valentina Esposito in collaborazione con gli autori/attori del gruppo Fort Apache Cinema Teatro, compagnia stabile formata da ex detenuti oggi professionisti di cinema e palcoscenico. Da molti anni ormai la regista e commediografa lavora infatti in questo particolare settore del teatro e del cinema trasformando in pura creatività le energie di uomini che hanno trovato nella dimensione rappresentativa una ragion d’essere, un’attività nella quale hanno modo di esprimere le illusioni, le tragedie, le speranze e i desideri di riconoscimento di persone che nella recitazione e nella messinscena dei loro sentimenti hanno scoperto una nuova dimensione di vita, un modo inedito di impiegare non soltanto le proprie energie, ma il proprio corpo, la propria fisicità, la propria presenza, in un contatto con il pubblico che è insieme esibizione e confessione e, come in ogni rappresnetazione teatrale o cinematografica, esternazione del rimosso e nuovo modo di essere.

Fisicamente Valentina Esposito fa pensare a un fil di ferro, magra e duttile, energica e gentile, una persona che si piega ma non si spezza. È autrice, regista, docente universitaria, e madre di tre bambine, una delle quali appare in palcoscnico nell’ultima pièce, Destinazione non umana.

Al suo lavoro degli ultimi anni appartiene la direzione della parte teatrale in Cesare deve morire (2012) dei fratelli Taviani e l’emergere di un attore straordinario come Marcello Fonte cui nel 2018 viene assegnata la Palma d’oro per il film Dogman Di Matteo Garrone. Marcello Fonte sarà anche l’eccezionale protagonista di Famiglia (2020) uno spettacolo che, partito dal Teatro India di Roma, ha girato in molti teatri italiani.

Destinazione non umana visto al Teatro Tor Bella Monaca di Roma, coglie sette personaggi che intepretano ex cavalli da corsa in attesa della macellazione perché non più abili e geneticamente difettosi. La scena, in cui gli attori sono inginocchiati davanti a sette «scatole» che evocano la forma delle bare, annunciano fin dall’inizio la loro sorte e da questa situazione di pena scaturiscono le vicende del passato, i brandelli di storie incompiute, l’illusione di protrarre il più a lungo possibile la propria esistenza, desiderabile anche se «non umana» con i suoi errori e le sue mancanze in un disperato desiderio di recuperare ciò che si è dissolto nella dimenticanza e nel «non vissuto». I costumi e la scenografia «minimale» danno alla rappresentazione un tono fortemente espressionista, raro nel teatro italiano, ricco di allusioni e stimoli per l’immaginazione degli spettatori.

Ciò che rende importante e costruttivo lo spettacolo è proprio la sua capacità di entrare negli occhi e nel pensiero degli spettatori per evocare magari il loro vissuto personale, per invitarli a «sentire» la rappresentazione come propria e fertile di associazioni e sensazioni personali.

C’è una lunga sequenza di Un anno con 13 lune, di un autore dimenticato come Rainer W. Fassbinder, che è girata tutta in un mattatoio, mentre i quarti di bue vengono fatti scorrere sui ganci del soffitto e i personaggi evocano le loro sconfitte.

La messinscena di Valentina Esposito mi ha fatto pensare a queste reminiscenze espressioniste di cui tutto il cinema di Fassbinder è pervaso, suggestione abbastanza inedita nel teatro italiano contemporaneo. Perché lo spettacolo va alle radici dell’immaginario di ciascuno, evocando le acrobazie del quotidiano e le aspettative deluse di cui ogni persona è vittima, con in più la dimensione favolistica di un apologo sulla morte e la solitudine, sul dolore, la rabbia e la paura.