«Un giorno li ho visti per strada sui Navigli: ho provato a fermarli, non ne hanno voluto sapere. Li ho lasciati andare e subito me ne sono pentita, poi li ho cercati. Al primo incontro a casa loro, sono andata con i miei sceneggiatori. Loro non avevano assolutamente voglia di parlarci. Così è iniziato tutto». C’è un rapporto umano, intimo e reale, dietro le riprese de La timidezza delle chiome, lungometraggio di Valentina Bertani (candidato come miglior documentario ai David di Donatello), a metà tra fiction e realtà, che con delicata curiosità ci disvela i tratti di un coming of age particolare. Benji e Josh sono due adolescenti furiosi e bellissimi, gemelli omozigoti di origine ebraica, entrambi affetti da disabilità intellettiva, cresciuti in simbiosi, diversi tra loro ma molto uniti. Dopo la maturità, davanti a loro si apre un varco spazio temporale sconosciuto, di gioia e tremore. La fine della scuola, il lock down, il campeggio estivo; il periodo da volontari nell’esercito israeliano nella “special in uniform”; la rabbia, i desideri e le pulsioni sessuali, il rifiuto delle regole, i riti di passaggio dell’età adulta. «Tra tutti i temi emersi, quello che alla fine ci ha interessato è la rappresentazione di un punto di vista inedito: la visione del mondo di persone con disabilità intellettiva. Sono 90 minuti fuori dall’ordinario. È stato un film con un percorso complicato. Ha stravolto la mia vita. Per fare bene un documentario bisogna entrare nella vita delle persone. Si diventa invadenti e si viene anche invasi. Sono stati cinque anni intensi. Uscivamo una volta a settimana con i ragazzi, eravamo sempre a telefono, con loro, con i genitori con cui c’è stato un affidamento reciproco e totale. I ragazzi erano felici, mentre gradualmente con tutta la troupe individuavamo le tematiche da trattare. Benji e Josh hanno bisogno di un interprete della loro realtà. In cinque anni li abbiamo conosciuti, abbiamo imparato a capire come ragionavano, come parlavano, hanno un modo di parlare molto punk».

NE La timidezza delle chiome (il titolo riprende poeticamente e metaforicamente l’attenzione dei rami di alcuni alberi a non farsi ombra a vicenda) tutto avviene con grande naturalezza, quasi come se fosse stato girato in presa diretta. Dietro c’è un lungo lavoro di improvvisazione: «Le battute erano libere, loro facevano le proposte e noi ci lavoravamo. Non è un film di montaggio. C’erano delle situazioni scritte ma nella gran parte dei casi è una messa in scena improvvisata. È stata una sorta di scrittura sul set, con tre sceneggiatori diversi. Ogni passaggio o azione con i ragazzi è stato un gioco. All’inizio non avevo nessuna garanzia che rispettassero regole. La prima che gli avevo dato, in occasione delle riprese del loro vero esame di maturità, era di non guardare mai in macchina. Sono stati bravissimi. Ci sono tantissime scene pensate insieme a loro. A volte è stato complicato fargli capire alcune cose. La chiave di volta è stata sempre l’affetto: imparare a conoscersi, volersi bene. Si sono fidati».

UNO DEGLI ASPETTI più interessanti del film è la messa in discussione totale dei preconcetti estetici legati alle persone con disabilità. «Non è vero che le persone con disabilità non sono desiderabili. Quando li ho visti la prima volta, i gemelli erano belli come piace a me, secondo la mia estetica: non convenzionale, sovversiva. Ho lavorato molto nella moda, all’inizio avevo pensato di fare con loro un fashion film. Molte scene sono state costruite proprio per dare spazio a questa loro particolare bellezza». Bellezza esterna che va di pari passo con una bellezza tutta interna, d’animo, che il film mette in luce. Questi due ragazzi si stimolano a vicenda – e stimolano noi – con domande «di scavo» che problematizzano continuamente la realtà: la vita, il futuro, i doveri, le relazioni, i sentimenti, i rapporti amorosi, parentali, le ingiustizie, la rappresentazione di sé; la ricerca dell’altro. E alla fine, siamo noi ad imparare da loro.