Molti francesi e fiammenghi che vanno e vengono e non li si può dar regola» (Considerazioni sulla pittura, 1617-1620). Un medico senese che di pittura se ne intende, Giulio Mancini, descrive così quello che vede a Roma. Aggirandosi per vicoli e osterie, vede giovani venuti dal nord che potevano anche non capire la lingua. Cominciavano da garzoni, e se da subito riflettevano su cosa fosse la pittura, dovevano fare i conti con Caravaggio, morto pochi anni prima, e con quel suo nuovo cinema della realtà, dove proiettori e tende denudavano la natura profonda di cose e persone.
Garzone in via Gregoriana
Quando arriva nella capitale, Valentin de Boulogne dovrebbe avere diciotto anni e del suo passato nei pressi di Parigi sappiamo ben poco. Forse è già quel «Valentino garzone pittore» che nel 1609 sta nello studio di un pittore fiorentino, in via Gregoriana. Guarderebbe avidamente la pittura di Cecco del Caravaggio, Bartolomeo Manfredi e Jusepe de Ribera, tre altri forestieri che avevano trovato una loro maniera di tradurre Caravaggio nelle loro tele. Ma sin dai dipinti degli esordi, ancora discussi dalla critica, le scelte di Valentin lo distinguono dai suoi primi punti di riferimento. Il mestiere del caravaggista lo praticava rispettando tutte le regole: la pelle grinzosa, i forti contrasti, le unghie sporche e le else delle spade brillanti di luce, panni o berretti tinti di un rosso che accende tutto il quadro, o il sangue che cola e si raggruma. Ma poi toccava alle espressioni, e nessuno, nemmeno Caravaggio, aveva mai provato a farle così intense. Difficile trovare volti misteriosi come quello del tale che mette la mano nella tasca dell’indovina, che è alle prese con i soldati, che bisbocciano col vino e litigano per chi per primo si farà leggere il futuro. O del ragazzo del dipinto di Dresda, che non sa quale carta giocare, e proprio dietro di lui un tipo loschissimo suggerisce un tre. È d’accordo con l’avversario e nella dolcezza ingenua del ragazzo è implicita la sua sconfitta. Potrebbe finire male, ma anche lui ha una spada.
Valentin abita in un «vicolo attaccato al Babuino a mano destra per andare in via Margutta». Divide l’affitto dell’appartamento con un pittore vallone e con uno scultore lorenese. Con ogni probabilità, nelle tasche non ha granché. Forse non gli mancano doti di seduttore: quando entra a far parte dei Bentveughels, una compagnia di pittori nordici scapestrati, sceglie il nome di «Amador». Ma a partire dagli anni venti, la cerchia più colta di Roma inizia a interessarsi dei suoi quadri che rappresentano zingare, soldati e mascalzoni. Lo notano uomini vicini al cardinale Francesco Barberini – nipote del papa, Maffeo, eletto nel 1623 come Urbano VIII – e di lì si aprono porte a dismisura. Scienziati e cardinali del calibro di Cassiano dal Pozzo o di Ascanio Filomarino, vanno anche alla ricerca di opere di Valentin. Di ritorno dalla Francia, con la pittura di Rubens negli occhi, il Barberini propone proprio due francesi per decorare due altari di martiri della Basilica di San Pietro: Poussin e Valentin. Racconta Joachim von Sandrart – una specie di Vasari per il Seicento europeo, che conobbe Valentin da giovane – che quando i due dipinti furono scoperti «nacque una grande disputa» fra gli intenditori. Se ne poteva concludere che entrambi gli artisti erano giunti al vertice dell’arte, ma ciascuno a modo suo. Poussin era innamorato di una dolcezza diversa. Stava dalla parte della tradizione, del colore, di Tiziano e di Raffaello. Sarebbe diventato il campione di un’epoca a venire, quella del classicismo.
Quanto a Valentin, anche nella pala vaticana sbalordisce per la sua meccanica nuova. Sovrappone i due martiri, incrocia i loro sguardi di terrore, dispone a tappeto due corpi tesi dalle catene dei torturatori. Il linguaggio del naturalismo non era sul viale del tramonto, ma pure occorreva rivederlo, se era destinato a San Pietro. La violenza e la crudezza della natura andavano ricomposte entro uno scenario accettabile, per rientrare nelle preferenze di una committenza colta, che in fondo aveva accolto le conseguenze della rivoluzione caravaggesca. Un manifesto di Valentin di questo Seicento serio e militante è l’Allegoria dell’Italia voluta proprio da Francesco Barberini, e oggi ci vorrebbe una pagina o un verso di Paolo Volponi, per intendere al meglio quest’opera cruciale. Fu una delle poche opere del catalogo del pittore che sfuggì all’occhio di Roberto Longhi; la ritrovò nel 1958 uno studioso francese, Jacques Thuillier, a villa Lante sul Gianicolo, sede dell’istituto finlandese di cultura. L’Italia è una donna possente che torreggia su una cornucopia, carica di frutti e di spighe, ha un castello come corona, ai suoi piedi sono due vecchi che personificano fiumi, l’Arno e il Tevere. E alla fine anche per quel nobile siciliano, Fabrizio Valguarnera, noto per essere un ladro di diamanti, Valentin concepisce un capolavoro. Il suo Concerto più poetico e raffinato, ora interpretato da Christiansen come allegoria dei sensi (dalla collezione dei principi Lichtenstein).
La mostra che abbiamo visto al Metropolitan – Valentin de Boulogne. Beyond Caravaggio (fino al 16 gennaio, a cura di Keith Christiansen e Annick Lemoine) – è una monografica che consente di farsi un’idea chiara su quel pittore vertiginoso del Seicento europeo che fu . La sua opera pittorica è presentata quasi integralmente, ed è la prima volta che succede. Rispetto all’attuale mostra inglese della National Gallery, pure di argomento caravaggesco, sembra ci sia una bella differenza. A giudicare dal catalogo, pare che a Londra sia tutto giocato su opere delle collezioni britanniche, belle e poco note, e che si fatichi a trovare un filo conduttore.
Gentiluomo con mascella
Un Sansone che viene da Cleveland, copertina del catalogo (pp. 288, $ 65), è l’emblema della mostra americana. L’eroe biblico, da sempre associato alla forza bruta, stavolta è un gentiluomo che medita sul leone che ha spellato e smascellato. Solo la mano che stringe la tunica, splendidamente rossa sull’azzurro della corazza, serba il ricordo di una potenza che per ora non si vuole scatenare. Dal raduno di opere, si esce ingentiliti. Figli di un’umanità sognante, gli attori di Valentin recitano la parte con ben altra convinzione, rispetto ai santoni di Caravaggio, troppo illetterati per affrontare un copione.
Valentin muore giovane, a trentotto anni. I posteri decidono di trattarlo subito in una maniera che lo distorce: diventa un eroe nazionale, di una patria che non ha mai vissuto. Sulla sua morte, aleggia da subito una favola. Una notte d’estate, sbronzo e «havendo preso gran tabacco», Valentin si butta a letto: ma fa troppo caldo, cerca ristoro in una fonte, in via del Babuino, l’acqua però è troppo fredda e muore sul colpo (Giovanni Baglione, 1642). L’unico a imparare qualcosa da Valentin sarà un altro francese, Simon Vouet, pronto però a tradirlo una volta tornato in patria. Per incarnare ancor meglio lo spirito del tempo di Richelieu, occorreva più eleganza e meno verità.
Venti anni dopo la sua morte, i quadri di Valentin arrivano in Francia. Li comprano il cardinale Mazzarino o il mercante-collezionista più raffinato dell’epoca, Everhard Jabach. Passano presto nelle collezioni reali e sono oggi al Louvre, che li ha prestati tutti al Met (la mostra, con cambiamenti, andrà a Parigi dal 22 febbraio al 22 maggio). Finché, nella camera da letto di Luigi XIV a Versailles, troviamo quattro Evangelisti: due sono a New York: sono vecchi disillusi, con lunghi capelli argentati. Gli angeli rispondono con facce da infanzia cresciuta nel vicolo: vispi e furbi.