Vaccini, sulla salute non comanda il privato
Il green pass alla mensa aziendale divide. Vediamo Confindustria all’attacco, il sindacato in difficoltà, il governo inerte. Proviamo a fare chiarezza, con una premessa e tre domande. La premessa. Le […]
Il green pass alla mensa aziendale divide. Vediamo Confindustria all’attacco, il sindacato in difficoltà, il governo inerte. Proviamo a fare chiarezza, con una premessa e tre domande. La premessa. Le […]
Il green pass alla mensa aziendale divide. Vediamo Confindustria all’attacco, il sindacato in difficoltà, il governo inerte. Proviamo a fare chiarezza, con una premessa e tre domande.
La premessa. Le posizioni no-vax non sono condivisibili.
L’art. 32 della Costituzione prevede il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, e tale è un vaccino. Ma prevede altresì che il trattamento possa essere imposto per legge, atto normativo di rango primario. In tal modo si giunge al massimo possibile di certezza del diritto, di eguaglianza, di garanzie nella formazione e dopo l’entrata in vigore (promulgazione, controllo di costituzionalità). Al tempo stesso, con la legge c’è piena e pubblica assunzione di responsabilità politica di fronte al paese nella sede di massima rappresentatività.
Si potrebbe con legge giungere alla vaccinazione forzosa di ogni uomo o donna nel paese laddove ve ne fosse la necessità, ad esempio per l’arrivo di un virus ad alto tasso di letalità, come l’Ebola. Siamo lontani da simili scenari. Ma rimane il principio, che si applica anche a interventi che indirettamente costringano alla vaccinazione, ponendola come condizione.
Diversamente, sarebbe sin troppo facile aggirare il precetto costituzionale che richiede la legge. Per questo è stato un passo avanti il modello introdotto per i medici e gli operatori sanitari, ora applicato anche al personale scolastico con il decreto-legge 111/2021. Meglio ancora sarebbe stato scrivere in chiaro che in determinati contesti il vaccino è obbligatorio. È cruciale che la legge ex art. 32 non contenga tali ambiguità da far riemergere i problemi in fase di attuazione.
Ora la prima domanda. Perché non è più possibile limitarsi ai protocolli, come quello sui luoghi di lavoro all’avvio della pandemia? Perché è mutato il contesto. Allora i vaccini non esistevano, e quindi non era in discussione il diritto al rifiuto, e le eventuali conseguenze. Il vaccino è un game changer, che rende il diritto al rifiuto un elemento imprescindibile. Il livello della disciplina richiesta si sposta dal piano dell’accordo tra le parti a quello legislativo. Ora il protocollo metterebbe un diritto costituzionalmente sancito nella disponibilità di soggetti privati.
Un esito inaccettabile, fosse anche per un periodo transitorio – peraltro indefinito – come suggerisce Treu su Repubblica del 15 agosto.
La seconda domanda. Perché non basta l’art. 2087 del codice civile, che pure è legge? La norma chiama l’imprenditore alle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. È anzitutto una norma scritta a tutela del lavoratore, non contro di lui come chiave per demansionamenti, sospensioni, riduzioni di stipendio o addirittura licenziamenti. E non si può concordare con Treu, quando afferma su Repubblica che «Qualunque giudice direbbe che l’articolo 2087 implica anche il ricorso al vaccino, come mezzo per ridurre il rischio dei lavoratori».
L’ostacolo insuperabile è ancora il diritto al rifiuto ex art. 32 della Costituzione. Non si può assimilare un obbligo vaccinale a quello di indossare una tuta protettiva, o di osservare una qualsiasi modalità nella prestazione lavorativa. Del resto, come indica lo stesso Treu, sarebbe pur sempre necessario il ricorso a protocolli, come suggeriscono i problemi di privacy, le contraddizioni stridenti che già emergono nell’esperienza, la possibilità di estensione a una molteplicità di contesti. Si ricadrebbe nell’obiezione già fatta ai protocolli. Per non dire poi della lettura estrema del 2087 nel senso di una scelta dell’imprenditore senza alcun accordo. Piacerebbe a Confindustria, che molto gradirebbe una forza lavoro di docili servi della gleba.
La terza domanda: e il governo? Si nasconde. Capiamo che ha un problema in casa. Ma non può esorcizzarlo esportando il conflitto in casa d’altri. Deve assumersi le sue responsabilità di fronte al paese. Abbiamo il diritto di sapere di che panni vestono gli occupanti pro tempore di Palazzo Chigi.
Conclusivamente, tutto gira intorno al binomio diritto al rifiuto – obbligo per legge. Treu sbaglia. Landini, sul Corriere della sera del 19 agosto, ha ragione. Ma non è una contesa accademica. Per l’art. 1 della Costituzione l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Per quanto ci riguarda, se non fosse più così fondata, dubiteremmo anche della sua natura democratica.
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