Spiaggia a Capri, Getty Images
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Vacanze, l’apostrofo rosa tra il lavorare troppo e il lavorare male

Costume Davvero si può credere possano bastare venti giorni conseguenti (nel migliore dei casi), a fronte di un anno di lavoro o di ricerca del medesimo o, nei casi meno edificanti, di evitamento/elusione dello stesso, per riconquistare un barlume di benessere psico-fisico?

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 luglio 2023

Potrebbero essere i giorni più belli dell’anno quelli che precedono le agognate vacanze estive. Potrebbero. Il diritto al “periodo annuo feriale di riposo retribuito”, in Italia è stato sancito, per la prima volta nell’aprile del 1927, dal XVI disposto contenuto nella Carta del Lavoro. Successivamente, la Costituzione del 1948 ha introdotto ufficialmente le ferie retribuite come diritto personale e inalienabile (art. 36), non specificando nell’originale e nelle successive modifiche, la durata minima di tale periodo.

Il Paese che per primo ha ideato un periodo di ferie “pagate” esteso a tutti i lavoratori è stato la Francia. Il progetto di legge è stato presentato e approvato nel 1925, sebbene la legge sia stata promulgata dal Front Populaire solo il 20 giugno 1936.

Il primo atto ufficiale al riguardo, il “Bank Holiday Act”, risale, però, all’Inghilterra nel 1871, con quattro giorni di ferie riconosciuti ai soli dipendenti delle banche in Inghilterra, Galles e Irlanda. Dal Regno Unito ai Paesi Bassi, dal Canada al Giappone, solo gli Stati Uniti, tra le 21 nazioni più sviluppate al mondo, secondo un rapporto del Center for Economic and Policy Research, non hanno mai imposto per legge, almeno a livello federale, le ferie retribuite.

Se il periodo per gli italiani, generalmente nel corso del mese di agosto, è stato a lungo scandito dal concentrarsi delle settimane più calde dell’anno e dalla chiusura delle grandi fabbriche del nord (vedi Fiat), i cambiamenti climatici, i costi legati alla cosiddetta “alta stagione”, l’impoverimento del welfare aziendale a sostegno di famiglie (vedi Centri estivi) e il depauperamento delle risorse umane a disposizioni del pubblico impiego hanno di fatto ridisegnato il calendario, allargandone il range. Da giugno a settembre, è tutto un incastro, dove il minimo imprevisto rischia di far saltare l’epocale progetto familiare della villeggiatura.

Abbracciato dalle imprese il neoliberismo di matrice anglosassone, con conseguente dirottamento, per scelta o necessità, della gran parte delle risorse private verso il welfare pubblico, abbandonato il discutibile “paternalismo organico” dell’ultimo quarto del XIX secolo, impoveritosi di risorse e personale tutto il settore del pubblico impiego e della grande industria (e non solo), persa l’idea di comunità solidali e coese, le ferie estive rischiano di creare non pochi problemi e generalizzati isterismi.

Intanto come ci si arriva: sfiancati, esauriti, quasi in debito d’aria. Un intero anno di lavoro sulle spalle, le scadenze di Imu, Irpef, Iva, Irap, l’anticiclone africano.

Il cambiamento climatico e le temperature sempre più da record, infatti, non possono che accentuare i disagi dell’attesa – e non solo, considerato che il rientro potrebbe essere non meno gravoso.Le scuole chiudono e chi si occupa dei ragazzi che rivendicano sempre più l’esigenza di abitare un mondo loro che solitamente si dipana – e sempre più- nelle ore notturne, in un proliferare di feste e serate tra pari da cui andare a recuperare la propria progenie, come da fase puberale fisiologicamente bramosa di vita?

Come risolvere la questione della momentanea sostituzione di tante persone che si prendono cura dei congiunti anziani ma hanno il sacrosanto diritto alle vacanze, corrispondente nello specifico ad un ritorno nei paesi di origine?

Se si ha necessità di rinnovare un documento, fare una visita specialistica, effettuare un accertamento diagnostico e tanto altro, ci sarà la possibilità di ricevere risposta in quel tempo ozioso, spensierato e sempre più dilatato che ormai va dalla chiusura delle scuole alla riapertura delle stesse?

Un certo disinvolto disimpegno (non ancora vero e proprio periodo di vacanza) nel nostro Paese sembra oscillare, infatti, tra ferie non godute dell’anno precedente da consumarsi entro una certa data, piccoli anticipi di quelle dell’anno in corso, permessi, infortuni e giorni di malattia.

Quest’ultima, su un’indagine di Confindustria del 2022, si è confermata la causa più frequente di assenza (3,4% delle ore lavorabili), seguita dagli altri permessi retribuiti (1,3%), che includono i permessi sindacali e quelli per visite mediche o accompagnamento parentale, e dai congedi retribuiti (1,0%). L’incidenza delle assenze è risultata pari al 5,8% tra gli uomini e al 7,7% tra le donne. I congedi parentali spiegano la quasi totalità della differenza, essendo pari al 2,4% delle ore lavorabili per le donne e allo 0,5% per gli uomini, a causa degli oneri di accudimento familiare, visto che quelli a carico del genere femminile sono di gran lunga maggiori.

Secondo un rapporto dell’Istituto Nazionale Previdenza Sociale (INPS), poi, complessivamente le giornate totali di malattia nel terzo trimestre 2022 sono risultate di circa 29,4 milioni nel settore privato e 6,8 milioni nel pubblico, con un incremento rispettivamente del 33,3% e del 37,9% rispetto all’analogo valore del 2021. Risultano analogamente in aumento anche le percentuali di lavoratori che nel III trimestre dell’anno hanno avuto almeno un giorno di malattia: nel settore privato si passa da una percentuale del 15% nel 2021 ad una del 20% nel 2022 e nel settore pubblico dal 13% al 20% (Fonte: Statistiche in breve. A cura del Coordinamento Generale Statistico Attuariale- INPS, Febbraio 2023).

Per ciò che attiene agli infortuni, i rischi legati a età, precarietà del lavoro e scarso benessere organizzativo sono trasversali a tutte le realtà. Tra i rischi trasversali continua a salire il dato relativo alle aggressioni e alle violenze sul luogo di lavoro, soprattutto rispetto alle attività di front-office, (vedi sanità, istruzione, trasporti, servizi sociali, vigilanza e ispezione, ecc.).

Mentre, ancora non riesce ad affermarsi la corretta applicazione dei principi ergonomici nella progettazione di layout delle postazioni di lavoro e delle attrezzature di lavoro. Uno studio del 21 novembre 2022 pubblicato dall’Institut français d’opinion publique (Ifop) ha evidenziato come il lavoro in Francia – Paese dove in termini di ore settimanali si lavora meno in Europa – sia percepito come un obbligo, più che come ha suggerito lo psicologo statunitense Abraham H. Maslow, una forma di realizzazione.

Se ci si deve assentare dal lavoro per recuperare una qualche forma di benessere, se le ferie diventano un periodo da sospirare e a cui andare incontro – per alcuni anche ricorrendo a qualche furbata – con fatica, allora è il caso di ripensare la qualità del proprio impegno professionale sia dalla parte del lavoratore sia dalla parte dell’intangibile diritto di quanti di quelle prestazioni dovrebbe beneficiarne in qualsiasi stagione dell’anno – tutti!

Chi lavora con dedizione e lealtà raggiunge il traguardo del primo giorno di ferie al passo di leopardo incalzato da una torma di bracconieri, chi non lavora sarà ancora più sfiancato dalla necessità di trovare il modo di “muoversi” da un riparo all’altro, esponendosi il meno possibile alla vista e al fuoco nemico, chi lo cerca deve interrompere la ricerca causa abbandono di quello già scarso garbo di rispondere a email e telefonate, salvo rendere ancora più ingiustificabile la latitanza, passando ore nella dimensione disincarnata dei social – anche in orario di servizio.

Il cittadino che deve barcamenarsi tra la sua attesa delle ferie e quella delle più svariate categorie altre, è ben disposto e tollerante nei confronti delle proprie mancanze, lo è molto meno nei riguardi di quelle altrui. Curiosamente si comprende il fastidio delle interminabili – delle volte solo pochi minuti – attese esclusivamente quando ad aspettare siamo chiamati in prima persona. Gli altri devono accettare la condizione della tacita soggezione agli eventi e agli elementi.

Davvero si può credere possano bastare venti giorni conseguenti (nel migliore dei casi), a fronte di un anno di lavoro o di ricerca del medesimo o, nei casi meno edificanti, di evitamento/elusione dello stesso, per riconquistare un barlume di benessere psico-fisico? Davvero possiamo affidare all’incontenibile fuggevolezza delle vacanze la nostra salute psichica?

La letteratura scientifica internazionale, nemmeno tanto di recente, si è soffermata sul ruolo che tutti gli eventi stressanti esercitano nel determinare modificazioni stabili di funzioni psichiche e cognitive, attraverso un meccanismo epigenetico, ossia di modificazione post-trascrizionale, suscettibile dello sviluppo di depressione, o almeno di discontrollo emotivo… con ricadute nel contesto lavorativo e non solo, vacanze comprese.

Quando, il giornalismo (tv e carta stampata) ci attenderà al varco, tra la fine di agosto e i primi giorni di settembre, con le trite e ritrite considerazioni sull’umore nero, sulla tristezza e sulla conseguente spossatezza da rientro, forse, sarebbe il caso di esigere l’opportunità di una meno sbrigativa lettura.

Forse, la maggior parte degli italiani (e non solo) non sono infelici perché le vacanze durano troppo poco, lo sono perché ciò che fanno durante tutto il resto dell’anno non li gratifica, non gli permette di coltivarsi come vorrebbero. Il lavoro sempre più pervasivamente assorbe i lavoratori, senza che questo sia legato necessariamente alla fatica necessaria per svolgerlo.

In un momento storico caratterizzato da resistenza attiva alle difficoltà oggettive, ma anche da resistenza passiva al cambiamento vero, sono elementi che andrebbero analizzati più accuratamente per evitare stress e, dunque, scarsa produttività e livelli sempre più alti di conflittualità nei contesti lavorativi e non. Il tempo trascorso a non lavorare, non è tempo perso. Quello trascorso a lavorare male lo è, per sé e per gli altri.

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