Utopie reali in attesa del sole dell’avvenire
Erik Olin Wright Intervista al presidente dell’Associazione statunitense di sociologia. Docente all’università del Wisconsin è diventato l’animatore di un progetto globale di alternativa al capitalismo, sostenendo che Uguaglianza, libertà, partecipazione devono diventare i principî guida di cooperative, economia solidale, istituzioni e esperienze di mutuo soccorso
Erik Olin Wright Intervista al presidente dell’Associazione statunitense di sociologia. Docente all’università del Wisconsin è diventato l’animatore di un progetto globale di alternativa al capitalismo, sostenendo che Uguaglianza, libertà, partecipazione devono diventare i principî guida di cooperative, economia solidale, istituzioni e esperienze di mutuo soccorso
«È sempre una sfida dire qualcosa di ragionevole in merito alle alternative al mondo esistente, specie quando si tratta di questioni complesse come un sistema sociale. Progetti esaurienti per modi alternativi di organizzare la società sembrano sempre innaturali, e sicuramente frutto di congetture. Questo è uno dei motivi per cui Marx è sempre stato scettico verso questi sforzi. Tuttavia, se non riusciamo a pensare ad alternative, il mondo così com’è si presenta sempre come naturalizzato». Gli interessi di ricerca di Erik Olin Wright – docente presso l’Università del Wisconsin e già presidente dell’Associazione statunitense di sociologia – si sono a lungo soffermarti sul concetto di classe e sulle forme di oppressione prodotte dal sistema capitalistico. Negli anni più recenti ha sviluppato un progetto, Real Utopias che è diventato anche un libro (Verso 2010). Il progetto mira all’analisi delle forme economiche alternative al capitalismo.
Abbiamo incontrato Wright durante il suo soggiorno in Italia, dove ha partecipato ad alcuni seminari e a un Convegno «Cooperative Pathways Meeting» tenutosi all’Università di Padova. Si tratta del quarto incontro nell’ambito del progetto Real Utopias, dopo quelli di Barcellona (2015), Buenos Aires (2015), e Johannesburg (2016).
Negli ultimi anni ha prestato particolare attenzione a forme alternative alla produzione capitalistica. Questa alternativa è connessa al suo progetto «utopie reali». Come si sviluppa questo progetto?
L’analisi inizia specificando i valori che si vorrebbe vedere accolti nelle nostre istituzioni sociali. Questo compito si riferisce alla necessità di elaborare fondamenti normativi di una scienza sociale emancipativa. Nel mio lavoro, mi sono dedicato prevalentemente a tre gruppi di valori: uguaglianza e onestà, democrazia e libertà, comunità e solidarietà. Questi fondamenti normativi mirano a due obiettivi: in primo luogo essi forniscono le basi per una diagnosi e una critica al capitalismo. In secondo luogo, sono fondamenti che forniscono un metro di giudizio per le alternative. Una cosa è dichiarare i valori o princìpi che animano un’alternativa e un’altra è specificare il progetto istituzionale che potrebbe realizzare questi valori. Noi vogliamo un’economia che sia profondamente e solidamente democratica.
Cosa significa in pratica?
L’utopia di cui parlo nel mio libro sulle «utopie reali» identifica i valori emancipativi di questa visione; mentre il reale guarda ai modi pratici per creare delle istituzioni in cui questi valori siano inclusi. Questo interessa due tipi di analisi. Primo, lo studio delle utopie reali comprende studi di casi concreti nel mondo, casi che, sebbene in modo imperfetto, rappresentano princìpi anticapitalistici congruenti con i valori emancipativi. Ne sono un esempio le cooperative, i bilanci partecipativi, l’economia sociale e solidale, le biblioteche pubbliche, le comunità legate da fini specifici, e molte altre cose.
Il punto saliente è capire come queste istituzioni operano, quali problemi esse si trovano di fronte, e quali cambiamenti nella loro esistenza potrebbe facilitarne l’espansione. Secondo, lo studio sulle utopie reali implica l’attenzione a proposte per nuove istituzioni che potrebbero essere organizzate all’interno delle economie capitalistiche e che potrebbero espandere le possibilità emancipative, ad esempio un reddito di base incondizionato e nuove forme di potere democratico, come assemblee legislative di cittadini/e scelti/e casualmente.
La strategia di base pensata intorno a queste linee di ricerca è che l’espansione di strutture e pratiche non capitalistiche all’interno delle economie capitalistiche possa prima o poi erodere il dominio del capitalismo. Questa strategia può essere fatta propria dal movimento operaio oppure servono nuovi movimenti sociali?
Abbiamo bisogno di entrambi. I movimenti necessitano di superare la strategia delle lotte che provano a migliorare le cose senza preoccuparsi delle trasformazioni delle condizioni di vita nel lungo periodo. Le lotte per il miglioramento delle condizioni di vita sono importanti certamente; ma noi abbiamo bisogno di riforme che cerchino di creare i «mattoni» per un futuro di emancipazione: una più incisiva democrazia in economia, nello stato e nella società civile.
Questi mattoni sono anche nell’interesse di un’ampia gamma di identità sociali e sono perciò congruenti con l’aspirazione di molti movimenti sociali popolari.
L’anticapitalismo è un modo di unire movimenti operai e molti altri movimenti sociali che si impegnano sull’ambiente e su varie forme di oppressione e diseguaglianze quali il genere, la «razza», l’etnicità, il sesso, la disabilità e l’emarginazione.
I movimenti sociali più recenti negli Stati Uniti e in Europa non sembrano essere basati su questioni relative alla classe (Occupy, 15M, etc..). Pensa che la questione di classe rimanga importante nell’attuale situazione globale?
Il mio punto di vista è abbastanza semplice: se il capitalismo rimane centrale, allora la classe deve essere importante, perché una delle caratteristiche che definisce il capitalismo è la sua struttura di classe basata sulle relazioni di potere. Questo non significa che l’identità di classe dei lavoratori rimanga importante come nel passato.
L’identità di classe operaia quale base per un’azione collettiva è stata infatti indebolita a causa di fattori sia strutturali (incremento della frammentazione ed eterogeneità della forza lavoro) sia politici (l’individualizzazione dei rischi, risultato delle politiche neoliberiste, in particolare grazie alla privatizzazione delle responsabilità). Ma questo non implica che la classe come struttura di relazioni di potere sia caduta verticalmente per quanto riguarda sia la determinazione delle condizioni di vita delle persone sia le forme del conflitto.
Negli ultimi trent’anni molti ricercatori hanno sottolineato come il capitalismo si stia strutturando attraverso catene del valore globali. Ma queste categorie possano essere di un qualche aiuto per comprendere la nuova organizzazione del capitalismo contemporaneo?
Non c’è dubbio che la produzione si strutturi oggi attraverso complesse catene e reti globali del valore. Ogni merce che arriva sul mercato è assemblata attraverso input – dalle materie prime ai semilavorati – prodotti in varie parti del mondo. Ma è anche importante sottolineare come molte delle attività economiche rimangano radicate a livello locale. In quest’ambito locale c’è infatti maggiore spazio di azione di quanto le persone pensino, in particolare per quanto riguarda la tassazione.
Quando la socialdemocrazia raggiunse il suo massimo splendore, la maggior parte della tassazione che sosteneva lo stato sociale proveniva dalla redistribuzione delle tasse dei lavoratori, non dal trasferimento dei profitti allo Stato. L’argomento critico rimane il livello di solidarietà tra salariati e la loro volontà di vedere la loro qualità di vita dipendere da quello che possiamo chiamare salario sociale piuttosto che dal loro «salario individuale».
Negli ultimi anni negli Stati Uniti e in Europa alcune delle più importanti proteste sono state sostenute dai lavoratori migranti. Pensi che la i lavoratori migranti siano in grado di modificare a fondo la classe operaia occidentale?
Negli Stati Uniti i lavoratori migranti sono così vulnerabili alla deportazione che è difficile definirli come un’avanguardia. Sospetto che questo sia vero anche per l’Europa. Inoltre le proteste dei lavoratori migranti spesso alimentano le divisioni razziali ed etniche, e quindi non è chiaro se questo di per sé favorisca nell’avvenire la ripresa di nuove solidarietà necessarie per la rigenerazione del movimento operaio.
Ma sono divisioni che devono essere perciò superate. Questo è successo nel passato in alcuni luoghi, sebbene altrettanto spesso questi sforzi siano falliti. Comunque, è chiaro che ogni rinnovamento del movimento operaio deve coinvolgere il lavoro migrante.
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