Virginio ha capito di essere in prossimità della fine. Il ciclo della sua vita sta per esaurirsi. È possibile che il punto di partenza e quello d’arrivo non coincidano affatto, che non vi sia circolarità e complementarità tra il prima e il dopo. L’unica certezza è che a quel percorso non sia imposta alcuna deviazione. Nella terra degli altopiani boliviani ha condotto la propria esistenza e in quei luoghi, divenuti progressivamente inospitali per le condizioni climatiche, Virginio vuole terminare la sua apparizione nel mondo accanto alla moglie Sisa.
A opporsi a questo progetto è Clever, il nipote che viene dalla città. Il giovane vuole che i suoi nonni si trasferiscano, che abbandonino le proprie origini per sopravvivere in un appartamento dove si può aprire un rubinetto e bere. L’anziano si oppone, resiste, non accetta l’esproprio della sua esistenza, anche se rimane poco da difendere. Nega l’evidenza di una tosse e di un respiro affannoso che testimoniano del suo grave stato di salute. Per lui, non è il momento di curarsi e di trovare un riparo nel quale si sentirebbe uno straniero senza identità, ma di continuare ostinatamente a cercare l’acqua per salvare i lama decimati dalla siccità. E poi, chissà, forse pioverà. Che quel fluido elemento vitale, al centro delle riflessioni filosofiche sin dai pre-socratici, stia per scomparire irreversibilmente, non costituisce una prova a sostegno della fuga.

NON È COLPA di Virginio se gli uomini hanno inaridito il Pianeta e messo in seria discussione la possibilità che l’homo sapiens ne possa ancora far parte. Le conseguenze di azioni così orrende, però, le dovranno subire pure lui e sua moglie. La coppia quechua ai margini del mondo e dimenticata, è stata travolta da storie interpretate e scritte da altri. Un tempo Virginio e Sisa potevano essere i protagonisti di un documentario antropologico d’osservazione che divaga sull’eccentrico. Ora, inconsapevoli del nuovo ruolo, rischiano di trasformarsi nelle comparse di un film di fantascienza dai chiari toni distopici e senza condottieri eroici.
Utama. Le terre dimenticate (Gran Premio della Giuria al Sundance, Premio del Pubblico al recente Festival del cinema spagnolo e latinoamericano, da oggi in sala distribuito da Officine Ubu in circa trenta copie) dell’esordiente Alejandro Loayza Grisi, è un’opera prima costruita in modo semplice che attraversa momenti dell’esistenza estremamente complessi. Due anziani, una casa in un altopiano, le stagioni che segnano il trascorrere del tempo, gli animali che permettono il prolungamento indefinito della quotidianità. Poi accade che il metronomo detti un ritmo sconosciuto, al quale è impossibile stare dietro. Arriva un giovane con buone intenzioni che vorrebbe salvare i suoi cari. In quel soccorso, tuttavia, si insinua involontariamente un elemento coercitivo, se non violento, sicuramente spaesante. Almeno è così che lo interpreta Virginio. Troppo orgoglioso per accettare un aiuto, enormemente fiero per rinunciare a se stesso, quasi che il suo essere così aderisca a un dogma.

IL CONFLITTO tra nonno e nipote potrebbe indurre lo spettatore a una netta presa di posizione. L’antico opposto al moderno, la malinconia per i tempi andati contro la disgregazione del presente, la vittima che difende quello che ha sempre fatto nemica del carnefice che con il suo stile di vita ha distrutto anche quello che non gli era immediatamente intorno. E poi la malattia e la morte, passaggi naturali insostenibili allo sguardo delle nuove generazioni. In parte è così. In parte no. Perché le ragioni di Virginio non sono assolute. Esiste il punto di vista di Sisa che ascolta la sofferenza di suo marito, che presta attenzione alle parole del nipote, che prende coscienza di quello che accade intorno. E che dunque, complicando il quadro, si pone come una eretica silenziosa di cui tutti avremmo bisogno in tempi di pensieri cristallizzati.