Il giorno dopo la sconfitta, la conferenza stampa e la considerazione di essere rimasto isolato, Obama ha la necessità di ricaricare in fretta le pile, perché è atteso da un appuntamento internazionale di prima grandezza, a Pechino.

Fuori casa, nella tana di un Partito comunista che sta sistemando le proprie riforme interne e mira ormai a ribadire la propria grandezza nell’area asiatica, proprio quella al centro dell’intervento obamiano con il suo pivot to Asia.

All’Apec, infatti, tra accordi su proprietà intellettuale e clima, gli Usa dovranno lavorare per lo più in difesa, cercando di bloccare sul nascere quell’accordo economico che la Cina vorrebbe proporre ad altri paesi dell’area, in netto contrasto con quello proposto dagli Usa (che taglia fuori proprio Pechino).

Ma internamente, dopo le elezioni di metà mandato, tengono banco i repubblicani. «Siamo tornati ad una maggioranza così consistente che nessuno di noi ha mai visto, potrebbe essere una maggioranza da 100 anni» ha esultato Greg Waldet, presidente del National Republican Congressional Committee.

Alla Camera i repubblicani hanno visto crescere la loro già consistente maggioranza a 243 dei 435 seggi, un record dai tempi dell’amministrazione Truman oltre 60 anni fa. Si tratta di un successo che ha ancora margini di crescita, perché ci sono ancora dei seggi contesi. Se tutto dovesse andare bene i repubblicani potrebbero arrivare a 249 seggi.

Si tratterebbe dunque di una vittoria ben superiore all’iniziale obiettivo di conquistare 11 seggi. I repubblicani così sembrano sul punto di riuscire ad ottenere nell’era di Obama quello che veniva teorizzato dieci anni fa da Karl Rove, il super stratega di Bush Obama, che sognava di costruire una maggioranza repubblicana «permanente» a Washington.

E i repubblicani cominciano subito a fare intuire cosa potrebbe succedere dopo queste elezioni.

Un esempio? Malgrado il successo del referendum del 4 novembre sull’uso ricreativo della marijuana, vincente anche nella capitale federale americana, una deputata repubblicana del Maryland, Andy Harris ha già preannunciato battaglia per bloccare tutto e pare possa perfino riuscirci.

Il Congresso americano ha infatti il potere di mettere il veto sulle leggi approvate nel distretto di Columbia. Si tratta di una procedura straordinaria, che prevede l’assenso delle due camere e del presidente degli Stati uniti entro 60 giorni dall’approvazione del provvedimento nel parlamento locale di Washington DC.

Il Congresso a maggioranza repubblicana sicuramente si farà valere, su questo e su altri temi, nonostante Obama durante la sua conferenza stampa dopo i risultati elettorali, abbia da un lato teso la mano, dall’altro cercato di confermare la sua volontà di andare avanti su alcuni provvedimenti.

Nel frattempo, mentre si discute ancora sulle cause della sconfitta democratica, il Wall Street Journal ha pubblicato la notizia di una lettera che Obama avrebbe scritto a Khamenei, su un’eventuale collaborazione per la guerra contro l’Isis.

Nella lettera, che il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest non ha commentato, Obama sottolinea a Khamenei che qualsiasi cooperazione contro lo Stato islamico è in gran parte condizionata dal raggiungimento di un accordo tra l’Iran e le potenze mondiali sul programma nucleare di Teheran entro la scadenza del 24 novembre.

È la quarta volta che il presidente americano scrive alla Guida suprema iraniana dal suo insediamento nel 2009.

La corrispondenza, evidenzia il Wall Street Journal, sottolinea il fatto che Obama vede l’Iran come un Paese importante per le sorti della campagna militare e diplomatica avviata da Washington per contrastare l’Isis. E di certo su questi e altri argomenti di politica estera – un po’ in ombra durante la campagna elettorale – presto arriveranno le trombe interventiste dei repubblicani.