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US, l’altro dentro di noi

US, l’altro dentro di noi

Il film Dal 4 aprile in sala l'ultimo film di Jordan Peele tra paura, lotta di classe e filosofia

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 23 marzo 2019

Un lunapark sulla riva del mare, di notte, in un tripudio di luci color caramella; le curve dell’ottovolante illuminato distese nelle proporzioni eleganti e allungate del Cinemascope. Le onde si abbattono tranquille sulla spiaggia deserta -come in Lo squalo. La mela candita della bambina è di un rosso lucido e invitante, come quella che offre la strega a Biancaneve; il premio vinto da papà al tiro a segno una maglietta di Michael Jackson in Thriller, troppo grossa per lei. Un barbuto mago Merlino dipinto su compensato invita, dall’oscurità, ad entrare nella Foresta incantata di una ride.
Jordan Peele (insieme al suo direttore della fotografia, Mike Gioulakis, collaboratore di Shyamalan e grande conoscitore della paura secondo John Carpenter) traccia lo sfondo, le ambizioni, il mood e la fenomenologia pop del suo secondo film, dopo lo straordinario successo di Get Out, in pochi tratti, con la precisione e la vividezza dell’attacco di uno dei grandi romanzi di Stephen King.
US, «Noi» in italiano ma anche -come hanno notato in molti- un gioco di parole sulla contrazione di United States, apre nel 1986 -l’anno di Top Gun, Nove settimane e mezzo e di Aliens; l’anno in cui Ronald Reagan firmò una legge che (previo pagamento di tasse arretrate e penali) legalizzava tutti gli immigrati (circa quattro milioni) senza documenti entrati nel paese prima del gennaio 1982; e l’anno di Hands Across America, un’iniziativa benefica in cui sei milioni e mezzo di persone che si tenevano per mano formarono un muro in carne ed ossa che attraversava gli USA, da costa a costa.
Come Get Out, US è un film denso di cinefilia e di conoscenza dei meccanismi del genere, che lavora però sullo stile e sulla dimensione metaforica dell’horror più nella vena di George Romero, Wes Craven e John Carpenter che in quella di J.J. Abrams. Adelaide, la bimba con la mela rossa, si aggira docilmente tra le giostre con i genitori fino a che, come attirata da una forza invisibile, si allontana da loro, scende sulla spiaggia ed entra in un «tunnel dell’orrore» pieno di specchi. Ma invece di quella che dovrebbe essere un’immagine riflessa…..
Il doppio, «l’altro» dentro di noi, è la metafora centrale di US e un classico della mitologia horror, almeno da Jekyll/Hyde in poi. E Peele -che ha raccontato di aver sempre avuto paura di «vedere il suo doppio sulla banchina opposta della metropolitana», la sfrutta in senso lato e su livelli molteplici.
GALLERIE
Un testo che appare sullo schermo prima dell’inizio del film (evocando ulteriori leggende e realtà dell’era reaganiana -dai coccodrilli nelle fogne, alle città degli homeless nei tunnel ferroviari) ci ricorda l’esistenza di miglia e miglia di gallerie, miniere, corridoi e linee della metropolitana abbandonati che si intrecciano sotto la superficie degli States. Già cruciale in Get Out, il sotterraneo è il rimosso, il luogo di chi non ha, chi è stato lasciato indietro e dell’orrore -dove si annidano la gente che vive sotto le scale nel film di Wes Craven e i morti che ritornano di Romero. La feroce riflessione satirica sulla razza che stava al cuore di Get Out qui slitta più nel territorio della lotta di classe, e poi trascende anche quella chiave di lettura puntando a una dimensione filosofico esistenziale.
Dopo il prologo notturno d’epoca, ritroviamo Adelaide nella luce smagliante di un contemporaneo pomeriggio della California del nord, interpretata da Lupita Nyongo e diretta, insieme alla sua famiglia, in vacanza a casa della nonna mancata da poco, dove passava le estati da piccola. Non appena si inizia a parlare di un’imminente visita in spiaggia, sappiamo di essere vicini al famoso Luna Park.
Nelle interviste, Peele ha dichiarato di non aver voluto fare un altro film centrato sulla razza e in questo senso i Wilson sono connotati come una «tipica famiglia americana» media, di successo. Gabe (Winston Duke), il marito di Adelaide è un gigante simpatico e non astuto, rappacificato nel suo ruolo di autorità secondaria (in US si respira decisamente l’aria del #MeToo). Zora, la teen ager filiforme, condivide con la mamma la passione per la danza e l’atletica. Jason, che avrà sette o otto anni e indossa quasi sempre una maschera tra Halloween e Venerdì 13, è più timido e ama giocare nascosto in un armadio. «Americani» si definiscono anche le strane, spettrali, ombre in tutina rossa che appaiono sul vialetto dei Wilson all’imbrunire. A distanza più ravvicinata Gabe e famiglia scoprono con orrore che gli estranei sono in realtà dei loro doppi – in versione approssimativa, come se non fossero completamente «finiti» (voci gutturali, movimenti schematici, un volto deformato dalle fiamme…); e aggressivissimi. Peele e Gioulakis coreografano l’assedio che segue con grande precisione di piani e inventiva, stabilendo una disturbante intimità tra ognuno dei Wilson e il suo riflesso malefico, armato di forbici dorate per uccidere. A Adelaide e alla sua «altra» (nei credits battezzata Red), rispettive capofamiglia che forse condividono un passato, la danza più impegnativa e complessa, che Nyongo (in entrambi i ruoli, come tutti gli altri attori) rende con sfumature ricchissime -a tratti sottolineando le differenze tra le due donne (la voce, i movimenti, l’uso del volto, persino la tonalità della pelle) per poi trovare improvvisi istanti comuni, che fanno ancora più paura.
IL MOTOSCAFO
Le metafore si sovrappongono con i rispettivi corpo a corpo (Marx e Platone, insieme a La notte dei morti viventi e L’invasione degli ultracorpi) intervallate da momenti comici che ricordano le irruzioni di humor in Get Out, generalmente concepiti alle spalle di Gabe e dello scassato motoscafo di seconda mano, comprato per farsi bello con la famiglia di amici bianchi e molto più ricchi che sta dall’altra parte del lago e che -scopriamo quando i Wilson cercano rifugio a da loro -stanno avendo problemi dello stesso tipo. Come dice la televisione, si tratta di un’epidemia. Nell’incessante susseguirsi di citazioni cinefile, concettualmente parlando, il titolo emblematico che sembra aver formato l’ispirazione di Peele è Alien.
Più affollato di idee, contraddizioni, punti interrogativi, arditezze e occasioni mancate di Get Out, US aspetta la fine per rivelarci il mondo sotterraneo. Una scelta senza paura, che include gabbie piene di conigli bianchi e che è il riflesso (non deformato questa volta) di un’ambizione alta, complessa ed eccitante.

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