Urbano VIII, la magnificenza caleidoscopica del mecenatismo
A Roma, Palazzo Barberini I Barberini favorirono sia Bernini che Poussin, sia Sacchi che Cortona. Riportando a Roma opere eccezionali, la mostra documenta l’idea del papa: superare ogni precedente modello
A Roma, Palazzo Barberini I Barberini favorirono sia Bernini che Poussin, sia Sacchi che Cortona. Riportando a Roma opere eccezionali, la mostra documenta l’idea del papa: superare ogni precedente modello
Scommessa vinta. Sebbene fosse impossibile restituire lo splendore del mecenatismo di Urbano VIII e dei suoi nipoti, la mostra a Palazzo Barberini (fino al 30 luglio; L’immagine sovrana: Urbano VIII e i Barberini, catalogo Officina Libraria) dà bene la misura e le coordinate di quella che fu un’epoca d’oro dell’arte, ovvero il lunghissimo pontificato (1623-’44; si celebra ora il quarto centenario del suo inizio) in cui il Barocco, da anni in incubazione, arrivò alla piena fioritura.
Si tratta di una rassegna articolata in dodici sezioni: il percorso parte al pianterreno, nell’ala dedicata alle esposizioni temporanee, per proseguire negli ambienti grandiosi del piano nobile, con i celebri affreschi di Andrea Sacchi e soprattutto di Pietro da Cortona, a tutti gli effetti opere esposte accanto a quelle che costituiscono i numeri di catalogo (in tutto meno di cento pezzi, compresi i molti libri: una mostra grande, ma non soverchiante). Per una encomiabile scelta della direttrice Flaminia Gennari Santori (anche curatrice della mostra), il biglietto d’ingresso è unico, per mostra e museo.
Come si sa, nel 1934 lo Stato abolì (tranne che per pochi capolavori, tra cui la Fornarina di Raffaello) il vincolo fidecomissario che aveva fino ad allora arginato le dispersioni della collezione Barberini. E così, quando nel 1949 sempre lo Stato acquisì il palazzo, dentro era rimasto ben poco: di quella che era stata, fino almeno alla metà del Seicento, una reggia forse senza pari in tutta Europa, con serie di arazzi, sculture antiche e dipinti senza fine, busti moderni e mobili sfarzosi, rimaneva ormai il guscio quasi vuoto. Pressoché nulla è arrivato a noi degli arredi, attentamente indagati da González-Palacios, che ne ha identificati alcuni, di eccezionale valore, oggi in collezioni private.
Per la prima volta, ora, è almeno tornato nel palazzo il capolavoro che guide e viaggiatori avevano per secoli indicato come un Highlight di un soggiorno a Roma, ovvero la Morte di Germanico di Nicolas Poussin, che i Barberini avevano tenuto con sé lasciando il palazzo, e vendettero al Minneapolis Institute of Art solo nel 1958. Ma la mostra ha riportato a Roma anche il Pan Barberini, dal 1947 al Saint Louis Art Museum, una scultura già creduta antica (pure da Rubens, che la copiò) e poi attribuita a diversi scultori del Cinquecento (con ogni probabilità è di Giacomo da Cassignola, e non della cerchia di Francesco da Sangallo, come vuole credere il museo americano). Personalmente, e non credo di essere l’unico, non sono mai stato a Minneapolis o a Saint Louis: e già solo per questi prestiti la mostra è imperdibile. Dagli eredi Barberini proviene anche la Statuetta equestre di Carlo Barberini, il più clamoroso bronzetto del Barocco romano (secondo la definizione della Montagu), altro pezzo che ben pochi hanno visto prima di oggi.
La mostra poteva avere tanti tagli diversi; si è deciso di puntare soprattutto sulla figura del pontefice (un altro dei curatori, Sebastian Schütze, ha dedicato al Maffeo cardinale, nel 2007, una monografia), seguendo solo in parte quelle dei due grandi cardinali nipoti, Francesco e Antonio, che gli sopravvissero a lungo, continuando la loro attività di mecenati e collezionisti, al pari dei loro eredi: e così, ad esempio, non è incluso nel percorso il magnifico ritratto postumo di Antonio, opera di Maratti, del 1682, che si ammira comunque nelle sale del museo, o ancora il ciclo dei bellissimi Apostoli, commissionato sempre da Antonio a Sacchi ma realizzato in gran parte, poi, dallo stesso Maratti, già oggetto di un’altra bella mostra in Palazzo Barberini qualche anno fa (anch’essi nelle collezioni del museo). Come regola, quindi, non si è voluto andare oltre il discrimine cronologico del 1644, ma la mostra si apre con alcuni capolavori che Maffeo commissionò quando era ancora cardinale, e così in apertura c’è subito Caravaggio, presente con il Sacrificio di Isacco degli Uffizi (1603) e con il ritratto del prelato (collezione privata) che sarebbe stato però opportuno presentare con un punto interrogativo (solo nel catalogo si dà conto del dibattito circa la sua paternità). Se così, da una parte, emerge prepotente l’eccezionalità del Maffeo intendente d’arte, capace di passare velocemente da Caravaggio a Bernini (presente già nella prima sezione con, purtroppo, una brutta e discutibile riproduzione del San Sebastiano Thyssen del 1617), passando per Ludovico Carracci (altro prestito eccezionale, dal Getty di Los Angeles, il San Sebastiano del 1612), dall’altra è un po’ spiazzante vedere in una mostra incentrata sul pontificato Barberini ben due tele riferite a Caravaggio, e persino una di Tanzio da Varallo (!), presente solo per evocare la beatificazione dei martiri di Nagasaki, e nemmeno una di Guido Reni, il pittore più amato tanto da Maffeo quanto dai suoi nipoti.
Ogni scelta, si sa, comporta delle rinunce: i focus sulla fortuna dell’Antico o sulla cultura scientifica sono di grande interesse, e presentano al pubblico pezzi anche eccezionali e niente affatto scontati (il Paesaggio con rovine classiche di Lemaire dal Prado è un’opera chiave, per la mostra, da tanti punti di vista), ma a rimanere un po’ sacrificata è stata alla fine, paradossalmente, una riflessione sulla storia dell’arte, sullo stile: i Barberini favorirono le carriere tanto di Poussin quanto di Bernini, tanto di Sacchi quanto di Cortona, ma in mostra non c’è mai un vero confronto tra le maniere di questi artisti.
Fin dal 2007 Solinas, a questo proposito, ha proposto una formula, quella di ‘stile Barberini’, per liberarsi della difficile, ma forse sempre più efficace e felice, categoria del Barocco. Si tratta di un discorso non facile da presentare al grande pubblico, e sul quale pure il dibattito critico è ancora aperto, ma quanto sarebbe stato illuminante e stimolante l’accostamento, ad esempio, tra il Martirio di sant’Erasmo di Poussin (altro apice della mostra) e una pala di Cortona (magari quella nella chiesa barberiniana per eccellenza, i Cappuccini)? Bellissimo, in questo senso, è infatti il confronto fra due busti, quello di Urbano VIII di Bernini e quello, ancora più potente, di Francesco Bracciolini, capolavoro del suo allievo, e poi rivale, Giuliano Finelli (di nuovo un prestito rilevante, dal Victoria and Albert Museum). Maffeo fu colui che sollecitò Bernini a farsi anche pittore, e l’assenza della sua tela oggi alla National Gallery di Londra, di provenienza Barberini, l’unica certamente riferibile a Gian Lorenzo sulla scorta di un inventario di primo Seicento, è dolorosa.
Il ruolo di Cortona come grande protagonista del pieno Barocco è celebrato come si deve nella sezione più emozionante della mostra: tre cartoni per arazzi del maestro e dei suoi allievi (tra cui Romanelli) sono presentati accanto ai rispettivi panni tessuti (provenienti da Philadelphia, New York e dal Vaticano), sotto la roboante volta del Salone, capolavoro dello stesso Cortona, in un allestimento fastoso e allo stesso tempo didatticamente esemplare. Qui davvero si comprende a cosa puntassero, prima di tutto, i Barberini, a superare ogni precedente modello (Scipione Borghese?) sul piano della scala dimensionale e della ‘copia’, nel senso di ricchezza e abbondanza. Palazzo Barberini, come detto, era infatti una reggia, ovvero una serie di appartamenti che non ospitavano solo collezioni in senso stretto, ma erano anche decorati da dipinti che avevano quasi la funzione di arredo, quali i paesaggi di Van Swanevelt degli anni trenta, ancora nelle collezioni del museo, e raramente esposti (neanche in quest’occasione).
Un’immagine indimenticabile della vita di quella reggia, comunque, l’abbiamo, e saluta lo spettatore alla fine del percorso (in una sezione a cura di Maurizia Cicconi): il Carosello in onore di Cristina di Svezia (1656), capolavoro a quattro mani di Lauri e Gagliardi, ci riporta a quel mondo di feste, accompagnate da rappresentazioni teatrali e musicali, che contribuì a consegnare alla storia Palazzo Barberini, e che è ben illustrato alla mostra, con l’Arpa Barberini e con la sua raffigurazione nel bellissimo Ritratto del soprano Marcantonio Pasqualini di Sacchi (Metropolitan Museum), un’altra star di quest’evento da non mancare.
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