Visioni

Up to Date vs démodé. La moda interroga se stessa

Up to Date vs démodé. La moda interroga se stessaPeggy Guggenheim con un abito di Paul Poiret nel 1924

ManiFashion Tra up to date e démodé, cioè tra la capacità di affrontare le culture nuove con le incognite del futuro e il fermarsi a raccontare valori consolidati, la moda si […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 febbraio 2014

Tra up to date e démodé, cioè tra la capacità di affrontare le culture nuove con le incognite del futuro e il fermarsi a raccontare valori consolidati, la moda si gioca il suo futuro. Con la Settimana della Moda di Milano per l’inverno 2014-15, entra nel vivo l’interrogativo sulle prospettive che la moda disegna per gli anni in cui viviamo. Ormai, la questione è più che decennale perché è dalla fine del secolo scorso che, facendo squadra con molte altre espressioni creative, la moda non sa più raccontare il suo presente.
Del futuro meglio non parlare. Stupisce, infatti, come un settore che a tutti gli effetti si è fatto leader della comunicazione diffusa delle visioni e delle prospettive, portando al suo attivo una produzione industriale esemplare e dai molti guadagni con l’estensione ai mercati globali, si sia in realtà trovata nella quasi totale incapacità a rinnovare il proprio linguaggio e ha preferito riproporre canoni del passato, quasi in una specie di autodifesa istintiva della propria storia recente. Eppure, in passato la moda è stata forse tra le espressioni creative quella che ha sempre preferito mettersi in gioco e correre il rischio, sia affiancandosi alle varie culture nascenti, sia formando proprie culture nuove. Sono anni, invece, che di questo processo inventivo non si vedono che episodi isolati e che il démodé ha preso il posto dell’up to date. Da troppo tempo, i riferimenti agli anni del passato hanno, per la moda, la funzione di una patente di nobiltà, di una legittimazione sancita dal tempo. Ed è una scelta di retroguardia che, anche nella sua accezione migliore, appare rétro, di ripiego, mentre il nuovo, in molti casi, è solo presuntuoso e pretestuoso perché immaginato e disegnato da quelli che Gillo Dorfles, già in un articolo del 1991, definiva «una folla di epigoni o addirittura di revivalisti e citazionisti», anche se molti giovani usano i social network per elaborare le proprie ispirazioni. E questo conferma che è il mondo intero a essere in retroguardia (vedi anche la musica e la politica), nonostante la tecnologia imperante, o forse a causa di essa.
Nella storia della moda, questo percorso è inedito. L’800 non ha citato il 700 e non è stato citato dal 900. Infatti, già nel 1905 Paul Poiret, considerato il padre degli stilisti moderni, aveva abolito il bustier, liberando le donne da una tortura. La sua influenza nel settore fu presto paragonata a quella che ebbe il suo quasi coetaneo Pablo Picasso nel mondo dell’arte. A Parigi, Poiret e Picasso condividevano anche l’ambiente di riferimento, come dopo facevano Coco Chanel e le Avanguardie (Stravinsky e Djagilev) e, negli Anni 60 e 70, Yves Saint Laurent e Warhol. Per avere un interlocutore, una molto attenta al contemporaneo come Miuccia Prada durante la scorsa Biennale d’Arte a Venezia, nella sede della sua Fondazione, ha rieditato la mostra del 1969 When Attitudes Become Form, ritenuta la culla dell’arte contemporanea. E questo è un altro segno dei tempi.
manifashion.ciavarella @ gmail.com

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