La Soprintendenza di Bari celebra presso Altamura il trentennale della scoperta avvenuta nella cavità carsica di Lamalunga nell’autunno del 1993, quando in un’abside naturale tre speleologi rinvennero uno scheletro di Homo neanderthalensis antico di 150mila anni. Al momento, si tratta dell’esemplare arcaico meglio conservato. E del più desiderato, perché non è ancora possibile estrarlo dalle formazioni di calcite e coralloidi che lo avvolgono.

UNA MOSTRA FOTOGRAFICA di Paolo Petrignani, visitabile fino al prossimo febbraio, è stata inaugurata a Palazzo Baldassarre, e un convegno ha lanciato un confronto internazionale tra gruppi di ricerca avvicendatisi nello studio di «Ciccillo», come l’uomo è affettuosamente soprannominato. «Vogliamo aprire lo sguardo alla conoscenza dell’intera grotta, mentre in questo trentennio ci si è concentrarti sul corpo del Neandertal», spiega l’antropologa Elena Dellù, che da cinque anni è responsabile della sua tutela. «Il nostro metodo è quello dell’archeologia globale. Applicheremo il 3D sull’estradosso della grotta per capire le modalità di ingresso del Neandertal». Finché non sarà portata a termine un’accurata ricognizione, non si possono escludere altre tracce neandertaliane: graffiti, pitture, oggetti. Informazioni utili arriveranno anche dalla sedimentologia, se verranno campionati i suoli presenti all’interno.
«Si è anche proposto di estrarre lo scheletro – prosegue Dellù –. Ma siamo cauti: non possiamo permetterci di perdere il contesto. Stiamo tuttavia monitorando le condizioni microclimatiche per stabilire quanto siano favorevoli a un’ottimale conservazione e abbiamo avviato un rilievo tridimensionale in alta risoluzione per indagare la grotta da remoto».

«CICCILLO» È UN MASCHIO adulto, di circa trent’anni. Non sappiamo come sia finito lì: se sia caduto da qualche imbocco che camminando non aveva visto, oppure se si sia infilato per sfuggire a un predatore. Si spera che il georadar faccia luce sugli accessi originari: l’unico oggi praticabile è artificiale e fu aperto nel 1993 dagli speleologi.
«Per il Neandertal, continuiamo a parlare di una storia tutta europea – racconta Silvana Condemi, paleoantropologa presso l’Università di Aix-Marseille –. Commettiamo però l’errore di concepire l’Europa chiusa come se pensassimo a chissà quale geopolitica posticcia, sebbene da almeno venti anni risulti evidente quanto fosse aperta all’esterno».
Anche se i dati sono pochi, si ritiene che 170mila anni si sia verificato un cambiamento nel cromosoma Y neandertaliano a causa – probabilmente – di un contatto con i Sapiens dei territori limitrofi del Vicino Oriente. Tuttavia, ulteriori dubbi sono sollevati dagli ultimi studi sulle ossa identificate nella grotta greca di Apidima, nella penisola del Mani. Quei Neandertal sono differenti: forse il contatto è avvenuto presto non solo nel Vicino Oriente, ma anche nell’Europa meridionale. L’auspicio è che l’uomo di Altamura, il più arcaico tra i neandertaliani individuati, possa far luce sulla prima fase di vita della specie.

«Un luogo comune vuole che i resti neandertaliani appaiano per lo più omogenei – chiarisce Condemi –. E in effetti è vero, sia nel tempo che nello spazio, dalla Spagna alla Siberia. Eppure ci sono piccole ma non trascurabili differenze: se i Neandertal sono molto omogenei in Francia, in Italia lo sembrano meno. Per esempio, è spesso diverso l’osso temporale dell’orecchio. E anche questa differenza, oltre a quelle genetiche, ci parla di rapporti con l’esterno».

COME LA PALEOANTROPOLOGA scrive in Mio caro Neandertal, è certo che ogni essere umano, eccetto in Africa, conservi dall’1,5 al 3 per cento del genoma neandertaliano. «I principali geni trasmessi sono quelli relativi all’adattamento al freddo e riguardanti il metabolismo dei grassi, la risoluzione di problemi infiammatori, la funzione protettrice della cheratina sull’epidermide», continua Condemi.
«Oggi, con diete ricche di cereali e una diffusa sedentarietà, quel diverso metabolismo dei grassi che agevola l’accumulo dei lipidi è però controproducente, così come non giova più quella capacità di sviluppare precocemente una reazione infiammatoria che, di fronte al Covid, si è rivelata fatale