Un colpo a sorpresa arriva ancora oggi dalla scena delle cariche pubbliche nella cultura. Forse sfiniti dall’ormai dilagante principio del «TeleMeloni», non si sa più neanche come reagire a questo killeraggio senza fine delle istituzioni culturali, questo affacciarsi come «padroni i casa» da parte di personaggi che davvero non sanno un bel niente di quanto dovrebbero governare e indirizzare, su terreni (come quelli della cultura appunto) dove per prima cosa bisognerebbe intendersi sul senso delle parole.

La riflessione nasce spontanea con le ultime nomine partorite da esponenti di questo governo, che forse davvero sarebbe il caso di non limitarsi a denunciare come «antifascista mancato», ma proprio non all’altezza dei compiti cui sarebbe chiamato. Come nel salotto di qualche antica farsa dove cavalieri in eterna espansione di sé e dame intente a sorrisi e sorbetti , si combinavano matrimoni predestinati ai tradimenti e a imbarazzanti successive insufficienze. Ma erano le farse di primo novecento, qui siamo cento anni dopo, e in questo giro di lotterie fasulle a pagarne il prezzo sono persone, culture e valori che faticosamente avevano acquistato la loro dignità.

La riflessione, banale quanto si vuole, viene oggi ancora e sempre da nomine e incarichi. La ministra per l’università e la ricerca (sic) Anna Maria Bernini ha nominato ieri Antonio Calbi, direttore dell’istituto italiano di cultura a Parigi, alla presidenza dell’Accademia nazionale di danza. Collezionista forsennato di incarichi e direzioni, nessuno per fortuna ha visto mai, almeno in pubblico, Calbi esibirsi sulle punte, ma certo il suo enciclopedismo conoscitivo nessuno avrebbe pensato poter arrivare a lambire la danza. Lui lo spiega, sulle agenzie che ieri davano la notizia, col fatto di aver tanto amato i balletti visti alla Scala in tenera età.

PECCATO  che l’Accademia di danza si occupi soprattutto della formazione di nuovi danzatori, una scuola dura, fisica e tecnica, ma non solo, cui i ricordi di tipo disneyano possono risultare addirittura fuorvianti. Lo dimostra anche la dialettica, dura ma ben corroborata da sapienze e valori, che di quell’Accademia in cima all’Aventino ha segnato gli ultimi anni.

Ma se Roma non ride, Milano ha pure il suo bel preoccuparsi. Lì la preda più pregiata per questa caccia senza limiti è naturalmente il Piccolo Teatro, di cui è superfluo ricordare la leggendaria e mondiale fama, qualche chilometro oltre la Brianza. Aveva già scandalizzato e attirato risatine qualche mese fa, la nomina nel cda da parte del ministro Sangiuliano, di Geronimo La Russa, avvocato figlio del presidente del Senato, nessun titolo teatrale in curriculum.

Ora quella curiosa presenza pare destinata a crescere di peso, con la sua nomina a segretario generale dell’ente, che lo porterebbe quasi a fianco (ma forse anche oltre) della direzione generale, da sempre prerogativa di persone che di teatro ne sappiano un pochino, da Strehler a Ronconi, fino all’attuale responsabile Claudio Longhi che ne è stato allievo… L’avvocato La Russa, agli occhi di qualsiasi spettatore, saprà molto di legge, visto che fa appunto l’avvocato, ma sul fronte spettacolo come lo si manda a contrattare con la Comédie Française o con la Schaubühne berlinese, per fare i primi esempi che vengono in mente.

Misteri che non portano buonumore, ma solo insicurezze in crescita. Questa mietitura di incarichi è perfino più delicata di una parte cospicua di anchor men che cambiano tv per non essere assuefatti al modello governativo, assume quasi un gusto suicida, anche se a pagarne il prezzo saranno sempre gli spettatori di un sistema impazzito.