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Uomini che aiutano gli altri

Uomini che aiutano gli altri – LaPresse

Nord/Sud La cooperazione italiana nasce negli anni ’60 sulle ali dell’entusiasmo. Ma con le logiche aziendali adottate nel frattempo svanisce il sogno di cambiare il mondo senza prendere il potere

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 29 maggio 2021

La cooperazione italiana nasce negli anni ’60 all’interno di clima culturale di grande effervescenza e rinnovamento. Si viveva con un grande entusiasmo, una grossissima gioia, sicuramente sproporzionata, molto naive. «Pensavamo – racconta Gino Filippini in Uomo per gli altri (Gabrielli editore) – di andare a risolvere i problemi del Terzo Mondo e della fame, sull’ondata della generosità di chi dal Nord dava aiuti e andava con soldi, tecniche, fede. Questo clima di grande entusiasmo era reale e ha portato quei primi anni a una certa dimensione di protagonismo, di trionfalismo che era propria di quel tempo. Un’epoca che poi si è rannuvolata. Il che ha fatto spazio ad un’altra fase, non solo del volontariato, ma più generale, che era quella della messa in discussione di tutto».

IN ESTREMA SINTESI l’idea iniziale era: siamo noi che sappiamo, conosciamo, abbiamo i mezzi, abbiamo tutto, andiamo là e facciamo lo sviluppo. Negli anni ’70, c’era stato un completo ribaltamento: «… adesso non bisogna più andare giù! Perché il problema è qui». Come il problema è qui? «Eh sì, perché il problema lo si osserva là nelle sue manifestazioni, sottosviluppo povertà ecc., ma le radici del problema non stanno là, stanno qui, per cui bisogna lavorare sulle radici e non sugli effetti. Quindi è inutile andar giù, bisogna impegnarsi qui!».

Si riteneva che la povertà del Terzo Mondo fosse sostanzialmente causata dal fatto che i rapporti internazionali fra i popoli sono costituiti da relazioni di dipendenza. Inoltre, molti progetti non facevano che reiterare modelli di sviluppo capitalistico, con l’impiego di tecnologie non adeguate alle realtà locali: non appropriate, non intermedie, non sostenibili. La cooperazione poi era non cooperativa, ogni ente andava per sé, così succedeva che in una zona c’era due tre organismi impegnati a fare pozzi e in un’altra non c’era nessuno. Si arriva alla costruzione dei progetti, dove da una scrivania di una città del nord si stabiliscono durata, obiettivi e metodologia di lavoro: il sapere è tutto in occidente.

Con gli anni è sempre più cresciuto il contributo delle comunità locali. Con un numero crescente di domande utili a determinare il progetto: chi è il proprietario del progetto di sviluppo? La comunità locale? Il donatore? Metà e metà? Ma poi esiste una comunità locale? Dove inizia e dove finisce? Chi la rappresenta? Come la rappresenta? Quando inizia la partecipazione della comunità locale? All’inizio, alla fine, mai?

È NATO, COSÌ, un vero e proprio settore di cooperazione dove vi è la compresenza di piccoli gruppi che sostengono piccoli progetti a fianco di organizzazioni che hanno un budget annuale di alcuni miliardi di dollari. Ma anche le tipologie di chi fa cooperazione sono cambiate: le multinazionali fanno cooperazione, i governi fanno cooperazione, le chiese, i sindacati e persino i partiti fanno cooperazione.
Quindi qual è la differenza tra queste cooperazioni? Che differenza c’è se una strada (o un ambulatorio) vengono fatti dalla Fondazione Bill e Melinda Gates rispetto a Mani Tese o Amani? Dov’è che il volontariato si distingue?

OGGI SIAMO NELL’EPOCA dei progetti con monitoraggio e valutazione dei risultati. In due/tre anni devi risolvere un problema e dimostrare che è stato decisivo l’apporto del progetto attraverso una valutazione indipendente. I progetti vanno, tuttavia, “guadagnati” devi vincere la gara con decine di concorrenti, questo ha fatto sì che tutti gli enti di cooperazione e volontariato abbiano assunto figure dedicate alla sola scrittura dei progetti (e introiettato logiche sempre più aziendali). In genere in tre anni si risolve poco, a volte le situazioni addirittura peggiorano, non per via del progetto, ma per i processi economici, sociali e politici del Paese. Ad esempio se lavori per il risanamento urbano e cerchi di dare casa ai baraccati ti accorgerai che nonostante i tuoi sforzi il numero dei baraccati dopo tre anni di lavoro è aumentato perché è cresciuta la pressione migratoria dalle campagne e perché la condizione di chi stava un po’ meglio nel frattempo è peggiorata. È necessario fare un altro progetto, ma perché se finanziato deve essere innovativo. Il problema non risolto non può essere riproposto perché “vecchio” e con poco appeal.

C’È POI LA CONTRADDIZIONE dei Paesi donatori che con una mano prendono e con l’altra danno attraverso i progetti. Con una mano vai in Congo e ti riempi le “tasche” di coltan, diamanti, oro, tantalio, terre rare e con l’altra (più timida) metti su un dispensario, distribuisci aiuti alimentari e paghi i Caschi Blu. Più in generale agisci attivamente sulla generazione del riscaldamento globale e poi pianti alberi per fermare la desertificazione.

IN TUTTI QUESTI FATTORI si è ridotto il pensiero autonomo degli organismi internazionali piegati nella ricerca fondi e fagocitati nel dibattito politico solo in riferimento al salvataggio dei migranti nel Mediterraneo. Ma la cooperazione è molto di più, non è un progetto e nemmeno un processo di cambiamento, è il sogno di cambiare il mondo (senza prendere il potere), è la creazione di legami di lungo periodo che in qualche modo esprimono la negazione stessa del progetto che per definizione è a termine.

Una follia, come provare a spezzare il Sars-Cov-2 a mani nude. Precipitare, buttarsi verso il fondo della Storia per essere parte di una catena vitale che trasforma il dolore in bellezza e trasformando si trasforma.

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