È il 1966 quando John Berger insieme al fotografo Jean Mohr s’avventurano in quello che è uno dei reportage stilisticamente più riusciti della storia, Un uomo fortunato (Il Saggiatore, pp. 208, euro 22, a cura di Maria Nadotti), dove parole e immagini riverberano, diventano un fototesto esemplare e un prototipo del rapporto tra fotografia e letteratura. Soggetto delle loro attenzioni è John Sassal, un medico condotto che lavora nella foresta di Dean, in Inghilterra, una zona rurale isolata non lontana da Bristol, che subito associamo per intima consonanza al lavoro di un altro grandissimo fotografo, Eugene Smith, e al suo memorabile Country doctor, un antenato di Sassal fotografato in Colorado già nel 1948 in un bianco e nero caldo, sentimentale e ormai classico.

LA SCRITTURA ESSENZIALE di Berger ha un rigore formale e una eleganza stilistica stupefacenti, tiene insieme la concretezza dell’esperienza e la liricità dell’esistenza di uno degli ultimi grandi fratelli naturali, capace di entrare in empatia con le vite degli altri, quel medico «intero» di cui proviamo nostalgia e di cui parla Vittorio Lingiardi nella sua appassionata prefazione, perché «il valore della relazione medico-paziente appartiene sempre meno al sentimento della comunità».

È un libro fatto di incontri, di visite a domicilio, frammenti di esistenza – un boscaiolo intrappolato sotto un albero, una donna malata di cuore, due vecchi che sorvegliano le malattie uno dell’altro – ma Sassal diventa soprattutto il grimaldello per osservare con spirito politico la meccanica sociale di semplici agricoltori, operai, piccoli artigiani della classe bassa esclusi dalla conoscenza e stanziali, di cui è un apice con il suo riconosciuto stato di privilegiato, anche per la licenza che gli permette di entrare in contatto con aspetti dell’esperienza segreti e inaccessibili nel ruolo di testimone, come assistere all’agonia e alla morte dei suoi pazienti e a tutte le nascite.

Berger ibrida tensione saggista, esperienza reportistica e narrazione tout court, rimettendo in circolo alcune memorie letterarie (Conrad, Goethe, Paracelso, Sartre), mentre Mohr non solo documenta ma diventa un occhio sensibile che coglie la tensione di volti, paesaggi e, soprattutto, mette a fuoco la relazione mentre ausculta, medica, visita, l’intimità di «riconoscere il suo paziente con la sicurezza di un fratello ideale». Inoltre, Sassal «Fa qualcosa di più che curarli quando sono malati; è il testimone obiettivo delle loro vite».

IL REPORTAGE NARRATIVO di Berger è circoscritto nello spazio geografico esistenziale di un microcosmo quanto il Viaggio avventuroso intorno alla mia camera del salisburghese Karl-Markus Gauss (Keller, pp. 240, euro 18), che è un remake letterario del libro di Xavier de Maistre, della razza di autori memoriali come Sebald e Brokken è, invece, un libro da flaneur feticistico e domestico inclassificabile. Una narrazione a zig zag fatta di continui deragliamenti dove l’unico centro e motore propulsore è il raccontare del suo autore che parte da un oggetto del quotidiano, una madeleine, e apre alle storie della Storia e alle diverse geografie del mondo.

Può essere un tagliacarte moravo, una elegante scrivania, un minimappamondo, un mucchio di lettere custodite in un baule, poco importa, questo fuoriclasse della divagazione con la «dannata inclinazione all’enciclopedismo», affascinato dalle vite memorabili nelle quali intreccia la sua biografia, come ammette – «Leggendo nei personaggi dei romanzi così come nei loro autori io ho sempre cercato anche un po’ di me stesso».

COSÌ METTE IN MOTO una macchina narrativa totale e ondivaga nei suoi viaggi da fermo, nei falsi movimenti che dalla sua stanza, dalla sua camera da letto, possono portarci nell’Alta Austria di fine ‘800, nella Zurigo di oggi, invece che a Comrat a sud della Moldavia, o in viaggio sull’isola di Korcula in Dalmazia, basta un souvenir a far scattare la scintilla o il posacenere dello zio Hugo ereditato dalla madre. Perché è vero, «l’attrazione che proviamo per determinati oggetti ha un che di enigmatico», pur se non siamo come l’autore dei collezionisti feticisti, il quale ci parla in un flusso anche dell’attesa come «l’impercettibile movimento della morte», oppure del libro dei libri che non scriverà mai, dei luoghi dove ha pensato alla morte, della pioggia a Salisburgo o dell’orologio a muro di epoca Biedermeier.

Gauss racconta mentre si sposta nelle stanze della sua casa, e noi continueremmo a leggerlo ancora una volta finito il libro, affascinati dalla sua aneddotica colta e dalla moltitudine di personaggi come Erik Weihenmayer, «primo alpinista cieco a raggiungere la vetta del monte Everest», la nonna slovacca, l’inventore dell’Eternit Ludwig Hatschek o l’esploratore Oscar Bauman, tra gli altri, che immagina nel suo viaggio immobile, tutto mentale, sdraiato sul letto, «il luogo degli eventi primari della vita: la nascita, l’amore, la morte».