Uno zibaldone di affetti e politica
Novecento Il carteggio tra due innamorati speciali che tracciano, con la loro corrispondenza epistolare, un romanzo di formazione civile e morale: «Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926 e diari di Ada Prospero Gobetti, 1919-1926», riedidato dopo ventuno anni da Einaudi
Novecento Il carteggio tra due innamorati speciali che tracciano, con la loro corrispondenza epistolare, un romanzo di formazione civile e morale: «Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926 e diari di Ada Prospero Gobetti, 1919-1926», riedidato dopo ventuno anni da Einaudi
stolare tra due giovani, poi unitisi in matrimonio, è anche il romanzo della loro formazione civile e morale, le quasi trecento lettere scambiate in otto anni tra Ada Prospero e Piero Gobetti, fidanzatisi nel 1918 e poi sposatisi nel 1923, costituiscono un caleidoscopio di pensieri e uno zibaldone di sentimenti dove pubblico e privato si intrecciano incessantemente. Su di esse una minuta scrittura quotidiana, altalenante tra auto-prescrizioni e giudizi tanto severi, a tratti sferzanti, quanto meditati, sovrasta l’intero impianto del carteggio. Che a sua volta copre gli anni che vanno dal 1918 al 1926, pieni di conseguenze non solo per i due estensori ma anche per l’Italia e, in immediato riflesso, per l’Europa medesima.
Così è quanto si ritrova Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926 e diari di Ada Prospero Gobetti, 1919-1926, ora rieditati, dopo ventuno anni dalla loro prima pubblicazione, per la cura filologica e di alta acribia critica di Ersilia Alessandrone Perona dall’editore Einaudi (pp. XLVI – 674, Torino 2017, euro 32). L’intero corpus letterario è sospeso tra la persistente riproposizione di un privato imprescindibile, quello vissuto dai due giovani, che si impone passo dopo passo con i costanti riferimenti inseriti nelle fessure di un dialogo ininterrotto, e il farsi di una dimensione pubblica che, dalla guerra e dal dopoguerra, transita verso soluzioni politiche inedite, di cui il fascismo fu l’esito, infine, più potente.
NELL’INSIEME, LE LETTERE sono un complesso confronto, a tratti quasi labirintico, tra la propria maturazione intellettuale e morale, vissuta con crescente intransigenza, e l’immaturità lievitante di una società sempre più lontana da quelle speranze di riforma radicale alle quali Gobetti si sentì legato fino all’ultimo dei suoi giorni. La qual cosa può indurre a molte reazioni, intravedendovi il romanzo di una sconfitta, quella di una generazione troppo giovane per avere partecipato ad una guerra sui campi di battaglia ma già obbligata a capire cosa fosse quella nuova forma di guerra civile che si andava annunciando come soluzione totalitaria al conflitto sociale postbellico.
Da un lato, quindi, si coglie il tracciato di una storia intellettuale nel suo farsi mentre dall’altro si delinea il fittissimo intreccio di relazioni e rapporti che soprattutto Piero andò costruendo prima di concludere la sua «breve esistenza».
Studio, riflessione ed elaborazione erano peraltro intesi come strumenti per l’azione. Le une cose non avrebbero potuto esistere senza l’altra. Ne sortisce un epistolario ancora una volta sorprendente, alla sua rilettura, vuoi per l’immensità di riferimenti, suggestioni culturali, ricchezza di sollecitazioni vuoi per l’intima severità che ne pervade un po’ tutte le pagine.
COME EBBE A SCRIVERE lo stesso Gobetti, «bisogna alla nostra precisione e maturità imporre la costanza di un’inquietudine, di un’inappagata ricerca, di una lotta continua contro tutto ciò che ci può irrigidire in un passato». Che una cultura di opposizione rischiasse di trasformarsi in un esercizio di contemplazione era peraltro rischio che intendeva evitare, preconizzando il prematuro declino dell’antifascismo, come sarebbe poi avvenuto almeno fino al 1936, con la guerra di Spagna a fare da spartiacque.
Ma le lettere sono una piattaforma molteplice, che non può essere letta e quindi fruita in un solo modo, pena lo svilirne i molti significati. In esse si estrinseca il rapporto aurorale, poi fortificatosi nel tempo, tra Ada e Piero, con il veloce consumarsi di alcune stagioni, in sé accelerate, che Alessandrone Perona identifica in alcuni passaggi distinti.
L’idea stessa di amore, come insindacabile reciprocità, attraversa le tante righe vergate e scambiate ma situa i due protagonisti su piani distinti: se per Ada si tratta di una dimensione esclusiva, per Piero essa si fonde inesorabilmente con la passione civile e culturale dalla quale era dominato, a tratti in maniera quasi febbrile.
PIÙ CHE DARE CORPO a due distinti idealtipi (la figura femminile romantica, il maschio che ha invece «l’anima e l’inquietudine di un barbaro, con la sensibilità di un cinico», com’egli si definiva, forse immeritatamente, nel 1922) ne deriva un connubio di fondazione tra la ricerca delle parole per raccontare dei sentimenti di un’intera epoca, così come Ada andava in sé facendo, e quel bisogno di razionalizzare i processi personali, così come i percorsi storici, che era il tratto dominante in Piero. Di quest’ultimo, politico ancora acerbo e infaticabile organizzatore di cultura, emerge il vero tratto biografico, fondato sull’esigenza di stabilire dei rigidi confini, entro i quali edificare una moralità assoluta.
Così, in un bellissimo passaggio di una lettera dell’agosto del 1922, Ada affermava: «Per te il mio amore è il solo conforto nei momenti sempre più rari di debolezza, è anche qualche cosa di più forse molto di più: ma è qualche cosa nell’organicità della tua vita. Per me invece questo amore non è qualche cosa nella mia vita, è la mia vita stessa, è l’aria che io respiro, è la ragione per cui vivo. Tutto il resto, lo studio, il lavoro esistono per me solo in armonia col pensiero di te e per me non hanno altro valore intimo che quello di amore. In questo non mi pare che ci sia né inferiorità mia né superiorità tua: ma semplicemente in questa differenza la necessaria intima ragione della nostra unità».
I LINEAMENTI A VOLTE marcatamente intimisti delle scritture, che si tratti delle lettere piuttosto che dei diari, non fanno tuttavia ombra alla ricerca non solo di sé ma di un «noi» inteso come soggetto collettivo del mutamento. È quindi l’incontro tra la propria storia, di coppia che si alimenta in un rapporto di inflessibile reciprocità, con la Storia collettiva.
In realtà, in tutta la riflessione inesausta che Gobetti conduce, prima con foga idealistica poi scendendo sempre più all’interno dell’ampio agone materialista, riguardo al rapporto tra élite, società e funzione dirigente, l’ombra del fascismo come reificazione prima e disintegrazione poi di tutti i capisaldi della propria formazione culturale si trasforma in un corpo a corpo con l’eredità intellettuale di cui si sente depositario. Se i toni di insoddisfazione delle prime lettere, spesso ripetuti, rimandavano quindi ad un senso di imperfezione propria, da sublimare e infine superare attraverso la ricerca culturale, con il trascorrere del tempo la sferzante critica contro una parte dei propri mentori diventa revisione integrale dei presupposti critici sui quali costruire l’azione politica.
È forse questo uno dei passaggi più rilevanti che si può cogliere dalle sue scritture epistolari. La qual cosa induce Piero Gobetti, all’eterna ricerca di un modello di riferimento, tra entusiasmi e disillusioni, in una bulimia intellettuale pressoché senza fine, a capire che la crisi italiana, ed in prospettiva continentale, decretava la sopravvenuta vetustà e l’inutilizzabilità dei vecchi strumenti.
Anche per questo fu senz’altro tra i primi, infatti, ad intendere che l’ipernazionalismo fascista non era un perversione di antiche idealità ma un nuovo orizzonte di significati e, soprattutto, la forma dell’organizzazione sociale nell’età di una nuova controrivoluzione.
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