Uno storico militante, nell’orizzonte acheo
Saggi di storiografia classica Ritenuto per lungo tempo un modello di imparzialità, Polibio restò sempre un uomo di parte, la cui opera va interpretata anche come «azione»: un saggio di John Thornton da Carocci
Saggi di storiografia classica Ritenuto per lungo tempo un modello di imparzialità, Polibio restò sempre un uomo di parte, la cui opera va interpretata anche come «azione»: un saggio di John Thornton da Carocci
Un secolo fa, per Benedetto Croce, lo storico greco Polibio era un «Aristotele dell’antica storiografia: un Aristotele storico e teorico insieme», e di lui si elogiava «la vigilanza critica, l’austerità scientifica, l’anelito verso l’ampia e severa storia». Quella pagina non felice, che si legge in Teoria e storia della storiografia, è ormai dimenticata: ma il posto di Polibio tra gli storiografi antichi è di rispetto, pur se meno vistoso di altri: l’edizione commentata delle Storie disponibile nella Bur, in otto volumi (2001-2006) ne è un segno concreto, e non l’unico. Certo, fu colui che narrò la storia della seconda guerra punica e il collasso del mondo ellenistico, e teorizzò la natura «mista» della costituzione romana: ma Polibio non fu solo uno storico o interprete di fatti, bensì, prima ancora, un attore delle res gestae.
Durante le contese che nel II secolo a.C. scossero la Grecia, divisa e come sempre sospettosa di ogni potenza regionale egemone, egli ebbe ruoli politici di primo piano nella confederazione achea. Ma l’intervento romano in Grecia, in soccorso di alleati, si trasformò, per tappe successive, in annessione. Città-stato e federazioni e regni finirono sotto il dominio di Roma. Dopo la sconfitta del re Perseo (166 a.C.), Polibio fu, con altri, deportato in Italia come ostaggio. Conobbe allora da vicino la repubblica romana e l’aristocrazia che la governava. La svolta globale di cui era stato testimone lo portò a farsi storico della straordinaria affermazione di Roma, divenuta nel volgere di poco più di cinquant’anni la maggiore potenza mediterranea. I 40 libri delle Storie, pervenuti solo in parte, erano specialmente volti a studiare il periodo tra il 220 e il 146 a.C. In quella fase, tutti i competitor di Roma uscirono vinti e travolti, da Cartagine alle federazioni greche, ai regni di Macedonia e di Siria. Rientrato in Grecia nel 146, dopo la drammatica rivolta antiromana, Polibio ebbe il compito di gestire nel modo migliore possibile la coabitazione con i nuovi dominatori: ne ebbe onori e statue, e morì vecchio.
Per secoli, la cultura europea trovò in questo storico un «maestro di sapienza politica, diplomatica e militare» (Momigliano); lo storicismo ne fece invece un modello di «imparzialità» storiografica; il nazionalismo nostrano, piuttosto, un cantore della «missione imperiale» di Roma nel Mediterraneo. Ma la sua amicizia con i conquistatori della Grecia pose anche il problema «patriottico»: era stato egli leale, pur nella sconfitta, o era passato a collaborare con il nemico, sposandone le ragioni? Nel secondo dopoguerra, negli studi si discuteva il giudizio espresso da Polibio sopra il dominio romano. In fondo, del vincitore egli aveva conosciuto l’efficiente macchina da guerra, la determinazione della classe dirigente, lo stile dei ceti aristocratici, ma anche le durezze della politica imperialistica. Aveva conversato con i dotti Scipioni, ma sperimentato anche le spicce maniere della conquista; aveva assistito alla liquidazione di Cartagine, ma anche all’esemplare distruzione di Corinto. Ripensando a questi eventi, in una famosa pagina del libro 36, Polibio presenta differenti punti di vista sull’imperialismo romano, dando spazio anche alle criticità. Ci si è chiesti se lo storico avesse mutato opinione nel corso del tempo, di fronte a un imperium di Roma che si mostrava non tanto animato dalla philanthropia, quanto sempre più avido e aspro. Dal 1945 in poi, l’accidentato rapporto tra greci «liberati» e romani ha più volte richiamato ai lettori di Polibio quello tra l’Europa «liberata» e gli Stati Uniti. Giacché, come ha osservato uno studioso italiano, «tra vinti ci si intende». Il passare del tempo apporta chiarezza.
Nel dopoguerra si sono avute accurate indagini sul metodo storiografico e profonde riflessioni sulla conquista romana del Mediterraneo. Da queste premesse muove un ripensamento di Polibio, adeguato all’epoca nostra: lo compie, approfondendo pagine importanti di Domenico Musti, il recente volume di John Thornton Polibio Il politico e lo storico (Carocci editore «Frecce», pp. 425, € 35,00), che affronta anzitutto, come mostra il titolo, l’indagine sull’uomo politico. Ricostruita (su base indiziaria ma stimolante) la formazione giovanile, valorizzati i modelli familiari, richiamate le esperienze acquisite come comandante della cavalleria delle città confederate del Peloponneso, il saggio si propone di ricondurre a una intenzione politica tutte le scelte di Polibio, sia quelle della sua azione pratica, prima e dopo l’incontro decisivo con il mondo romano, sia quelle di storiografo, che non andrebbero considerate nell’isolamento della «scienza», bensì restituite al «contesto» contemporaneo, ossia alle dinamiche politiche greche, modificate ma non stroncate dall’impatto della conquista romana, e in particolare al punto di vista di un politico legato all’orizzonte «acheo».
L’indagine si propone così di liberare Polibio da schemi che hanno avuto esiti deformanti. Lo storico antico dedica molte pagine a illustrare il proprio metodo storiografico, spesso con dure polemiche verso i predecessori, ma gli entusiasmi per la sua autorevolezza e «oggettività» imparziale hanno seguito una direzione impropria, al pari delle estenuanti discussioni per valutare se e in quale misura egli fosse filoromano. Molto decisa nel libro è la polemica contro la lettura «hegeliana», che ha imprigionato Polibio in un concetto di giustificazionismo storico, facendone il partecipe testimone della conquista romana della Grecia, vista come ineluttabile «lezione della storia». In realtà, Thornton scava con cura non tanto nei grandi eventi internazionali narrati nei libri giunti integri, ma in pagine meno famose, su complicati fatti della storia di Grecia, esposte in parti dell’opera pervenute in condizioni frammentarie e quindi di faticosa interpretazione. Ne risulta una netta correzione di rotta, perché l’analisi non punta a «stabilire se Polibio vada classificato fra i filoromani o gli antiromani, ma piuttosto a cogliere il senso della sua attività politica, e il messaggio che intendeva trasmettere attraverso le Storie».
Coinvolto in prima persona in parte delle vicende che narra, il Polibio riletto da Thornton non fu un anodino studioso di guerre, né l’autore di un compiaciuto resoconto della vittoria romana. Le critiche contro l’inadeguatezza dei predecessori erano contributi alla costruzione di un modello di uomo d’azione e di pensiero: la verità (politica, tattica, geografica) era al servizio della «utilità» della storia, non un fine a sé. Il giudizio sulla patria e i suoi destini nasceva dalla «realistica rassegnazione» alla realtà, e quindi del dominio romano (Musti).
Detto ciò, lo storico sentiva il dovere di notare gli errori commessi, da tutte le parti in causa, e di accusare avversari, ritenuti responsabili di scelte rovinose. In questa prospettiva, Polibio appare meno impassibile e più militante. Le sue posizioni, talora conformi al punto di vista romano, vengono intese non come una adesione autentica alle ragioni dei vincitori, sì invece come una convergenza «strumentale». Scelta sensata, da parte di un politico che viva la crisi del proprio mondo (e dell’equilibrio ellenistico), e cerchi di elaborare le ragioni della sconfitta. Come politico, Polibio avrebbe cercato una «via mediana», avversa agli opposti estremisti, attenta a non irritare i dominatori, vigile nel cogliere gli spazi residui di manovra. In vista di un equilibrio differente dallo stato presente, si sarebbe accostato alle ragioni di Roma, al punto da negare, talora, anche le pur evidenti durezze o ambiguità del senato o dei suoi inviati.
Certamente egli era contrario sia ai patrioti ribelli, fomentatori di moti inconcludenti e in fondo rovinosi, sia ai dichiarati partigiani di Roma, dei quali registrava «con soddisfazione» i vari fallimenti. Anche da storico, restava uomo di parte, perché la sua analisi di eventi contemporanei variava anche in ragione del bene o del male venutone agli achei.
Polibio scrisse di storia come un uomo d’azione in esilio, non come un professore. La sua opera, cui attese per lunghi anni, non era la sostituzione della politica, bensì una sua continuazione con altri mezzi. Era anche un modello, certo: le polemiche storiografiche e l’interesse per l’attendibilità dei discorsi riportati nel racconto erano pensate per essere utili a oratori/ambasciatori che, nel mondo interconnesso del loro presente, dovessero imparare a trattare con Roma, interlocutrice ineludibile. Per capire dunque le Storie, secondo Thornton, servono modelli interpretativi sfumati, perché in esse convivono la comunicazione esplicita e quella implicita, il public e lo hidden transcript (secondo il modello proposto da J.C. Scott, Il dominio e l’arte della resistenza, trad. it. Eleuthera 2006): e questa è la ragione di taluni giudizi polibiani oscillanti, interpretati come contraddizioni o mutamenti, che attendevano ancora una spiegazione coerente. Polibio rappresentava un punto di vista conservatore, avverso alle masse e pensoso dei rischi demagogici (sicché, verrebbe da dire, come suo modello andrebbe indicato non un severo Tucidide, ma un flessibile Isocrate), ma con uno sguardo attento su alcune urgenze politiche. La sua testimonianza, considerata in termini generali, vale come documento, e merita di essere ripensata, proprio perché appare «faziosa ma viva».
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