McCann, uno stile reticente per quotidianità travolte da catastrofi
Scrittori irlandesi Tre racconti di Colum McCann traversati da una tensione che mira a soluzioni perlopiù simboliche dei conflitti: da Feltrinelli, «Come ogni cosa in questo paese»
Scrittori irlandesi Tre racconti di Colum McCann traversati da una tensione che mira a soluzioni perlopiù simboliche dei conflitti: da Feltrinelli, «Come ogni cosa in questo paese»
Una storia rurale che fa pensare alle radici della letteratura irlandese moderna – non tanto alla campagna idealizzata di William B. Yeats, quanto alla ferocia e alla asprezza di John M. Synge e ancor più di Liam O’Flaherty – dà il titolo alla raccolta di Colum McCann Come ogni cosa in questo paese (traduzione di Marinella Magrì, Feltrinelli, pp. 128, € 16,00) finalmente pubblicata in italiano ventitré anni dopo l’originale in inglese, il cui titolo Everything in this country must, preannuncia – con la sua frase tronca – la propensione del narratore per il non detto, per l’ellissi. E, al tempo stesso, evidenzia il fatalismo della storia, che mette in scena un padre e sua figlia Katie mentre provano a salvare un cavallo da un fiume in piena. L’aiuto di un gruppetto di soldati britannici sembrerebbe decisivo, ma risulta sgradito al padre di Katie, cattolico. McCann registra con maestria la tensione politica, ma anche generazionale, che monta tra gli uomini e poi si placa fuori scena quando, spariti i soldati, il padre esce per abbattere il cavallo sofferente.
In poco più di un centinaio di pagine questo racconto trova spazio insieme a un altro, anch’esso breve, «Legno», seguiti da uno ben più lungo, «Sciopero della fame». La misura così diversa dei testi può lasciare interdetti: che genere di anticamera sono quei due racconti brevi per il testo che li segue e che, pur non dando il titolo al volume, ne definisce senz’altro il tono?
Sebbene molto diversi tra loro, tutti e tre i testi mostrano una simile tensione verso risoluzioni incomplete e solo simboliche dei conflitti. E propongono uno schema narrativo analogo, nel quale una coppia di protagonisti – sopravvissuti, che hanno perso o stanno perdendo, mariti, mogli, figli – cercano di affrontare quotidianità e futuro, mentre forze soverchianti li sballottano da una parte all’altra. Nel primo racconto a travolgere i personaggi è la piena di un fiume; nel secondo è il conflitto politico; nel terzo è lo sciopero della fame, che i nazionalisti irlandesi attuarono all’inizio degli anni Ottanta per rivendicare il diritto a essere trattati come prigionieri politici, e che portò alla morte, tra gli altri, di Bobby Sands.
Molto convincente nell’articolare il rapporto tra un padre e una figlia (nel primo racconto) o tra una madre e un figlio (negli altri due), rapporti basati per lo più sul silenzio o sul suono di poche parole che si tengono quasi sempre a distanza di sicurezza dal centro nevralgico delle questioni, McCann usa il non detto come principio regolatore dei rapporti tra i personaggi; ma anche tra narratore e lettori. Nelle sue storie vige una taciturna acquiescenza e una solidale consapevolezza delle difficoltà inevitabili della vita, in un paese in cui tutto prima o poi finisce male.
Da un autore così propenso alle narrazioni corali, la scelta di rappresentare facce diverse di situazioni simili corrisponde, coerentemente, al suo giocare con le rifrazioni, e sulle diverse prospettive delle vicende umane, sia quando sulla pagina c’è la folla che osserva un funambolo mentre cammina sul filo steso da una torre gemella all’altra (Questo bacio vada al mondo intero) sia quando a venire rappresentata è la militarizzazione della vita quotidiana nell’isola d’Irlanda.
Difficile definire raccolta un libro in cui sembra che due ouverture parallele facciano da introduzione a un racconto lungo; eppure, la tessitura quasi musicale delle parti, con motivi pressoché impercettibili che si ripetono e si richiamano a distanza, aiuta il lettore a ritrovare una certa unità e un senso di familiarità tra le pagine.
Il terzo racconto, «Sciopero della fame», riguarda la cognata di un rivoluzionario irlandese incarcerato a Long Kesh, durante lo sciopero della fame del 1981. La donna decide di lasciare la tumultuosa Derry per la più serena e sicura Galway, prendendo le distanze dai disordini della guerra civile per provarsi a una nuova vita, che passa dal tentativo di cancellare le tracce, anche linguistiche, della sua vecchia identità. Non a caso, a più riprese insiste perché il figlio Kevin dismetta certe inflessioni nordirlandesi che tradiscono la sua provenienza.
Le giornate del ragazzo passano solitarie, mentre la madre è al lavoro, alternando gite in kayak con un vecchio lituano vicino di casa, a fantasticherie ispirate alle notizie dello zio, impegnato nello sciopero della fame e sempre più vicino alla morte, che il ragazzo per qualche giorno prova anche a emulare. Nonostante la Storia irrompa di continuo nella vita di Kevin, tramite riferimenti solo accennati, com’è tipico della reticenza di McCann, l’anima del racconto è nella continua tensione tra la rabbia adolescenziale di Kevin e la pubertà che lo travolge, facendogli avvertire un certo distacco dalla realtà che lo circonda, e contemporaneamente un sentirsi come «all’interno e all’esterno» della felicità, come «una pagaia nell’acqua che colpiva entrambi i lati della superficie, sopra e sotto».
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