Uno squalo in laguna
Cartelli di strada Caccia al grande predatore, poi la laguna dell’atollo ritorna zona di pesca dell’ostrica perlifera
Cartelli di strada Caccia al grande predatore, poi la laguna dell’atollo ritorna zona di pesca dell’ostrica perlifera
L’ostrica perlifera, o nacra, viene raccolta dal fondo del mare non tanto per la probabilità di trovarvi la perla, quanto per l’iridescenza del guscio che ha un fiorente mercato nell’industria dei bottoni. Metà anni ’50 nei remoti atolli delle Tuamotu, Polinesia francese del sud Pacifico; il regista Folco Quilici gira le scene subacquee del docufilm «L’ultimo paradiso» con protagonisti gli abitanti delle isole coralline che già da piccoli imparano a pescare le ostriche. È una pratica rischiosa. Si calano con i soli occhialini d’immersione fino a trenta metri sotto la minaccia costante degli squali. Il «tigre», fra i più aggressivi, è l’incontrastato padrone di quei mari. Varcata la barriera di corallo, di confine con l’oceano, entra nelle lagune dove si sviluppano le ostriche attirato dalla presenza umana. La barriera corallina è uno straordinario habitat di creature marine. Predominano i superpredatori, squali e barracuda in testa. Gli attacchi del «tigre», pure mortali, sono frequenti e i pescatori si raggruppano per predisporre in laguna la caccia allo squalo, una caccia che richiede gran numero di uomini sia in acqua sia sulle piroghe. Folco Quilici, viaggiatore instancabile e avventuroso, è uno stimato documentarista, non nutre dubbi sull’antropofagia dello squalo tigre; si è recato in Polinesia per riprendere, fra l’altro, la caccia al «tigre» e un giorno uno di questi grandi predatori irrompe in laguna. I polinesiani si fanno trovare pronti ad affrontarlo. Quilici e la sua troupe cinematografica si acquattano sul fondo con l’autorespiratore aspettando lo svolgersi degli avvenimenti. Gli uomini a bordo delle piroghe calano un maialetto, già sgozzato, usandolo come esca per fare emergere lo squalo.
Ma il maialetto, una volta divorato, non basta a stanarlo e i pescatori vi buttano squaletti morti. L’appetito vien mangiando e il «tigre», che ingerisce di tutto, si dimena a pelo d’acqua sotto le imbarcazioni per arraffare le esche; il suo corpo giovane, a striature gialle come il manto della tigre, è due volte la lunghezza della piroga. Il capopesca è su una di esse, intorno cui sguazza lo squalo. Non appena la larga bocca si spalanca per addentare l’esca, l’uomo vi infila fulmineo un grosso amo d’acciaio che si conficca nelle carni. Il «tigre» fa un salto fuori dall’acqua per lo spasimo quindi s’inabissa, trascinando la cima legata alla piroga che fila in superficie come un motoscafo. I cineoperatori non si lasciano sfuggire la sequenza. A ogni strappo, tentando di divincolarsi, la ferita si dilata tanto che il «tigre di mare» si uccide da sé. Pochissimi minuti, un ultimo sussulto, poi lo schianto. La caccia allo squalo, dura da descrivere, terribile da vivere in presa diretta, è conclusa e la laguna dell’atollo ritorna zona di pesca dell’ostrica perlifera.
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