Storia e critica dell’opinione pubblica (1962) è oramai riconosciuto come un classico del pensiero politico contemporaneo: il concetto di «sfera pubblica» che in quel testo venne elaborato da Jürgen Habermas è entrato anche nel lessico politico, seppure non sempre con un’adeguata consapevolezza delle sue implicazioni. Questa nozione di sfera pubblica è stata spesso criticata sulla base di considerazioni storiche o empiriche; ma in tal modo, si è spesso mancato di coglierne pienamente il senso: si tratta, innanzi tutto, di un paradigma critico-normativo e ricostruttivo.

«SFERA PUBBLICA» designa l’insieme delle interazioni discorsive che si costruiscono e si intrecciano nella società civile, e nelle relazioni tra questa e il sistema politico: nella sfera pubblica si produce, secondo Habermas, «potere comunicativo», ossia il potere delle idee e degli argomenti, delle credenze e delle opinioni, che poi concorrono (insieme o contro altri poteri) a determinare il corso delle decisioni politiche. Ed è per questo che la sfera pubblica si pone come un luogo conflittuale, tanto di legittimazione quanto, al contrario, di de-legittimazione e contestazione delle istituzioni politiche e sociali.

HABERMAS HA LAVORATO a più riprese su questo tema, e continua a farlo: i saggi contenuti in un volume da poco pubblicato (Nuovo mutamento della sfera pubblica e politica deliberativa, Raffaello Cortina, con un’ampia introduzione di Marina Calloni, pp. 160, euro 14) rappresentano un’ulteriore tappa della sua riflessione. Si tratta di tre testi di diversa origine: il primo è un saggio del 2021, apparso sulla rivista Leviathan («Un nuovo mutamento di struttura della sfera pubblica»). Gli altri due sono interventi esplicitamente dedicati al tema della democrazia deliberativa: un testo apparso in un volume collettivo del 2022 (a lui dedicato: Habermas and the Crisis of Democracy, a c. di E. Prattico, Routledge) e l’intervista che è stata pubblicata nel 2018 nell’Oxford Handbook of Deliberative Democracy.

NEL PRIMO SAGGIO, il filosofo e sociologo riprende in modo sintetico ed efficace i fondamenti della sua teoria democratica; e da qui parte per riconsiderare la nozione di sfera pubblica alla luce della nuova comunicazione digitale e dei suoi effetti. Come nota Marina Calloni, «il punto fondamentale» è quello della «progressiva e ambivalente carenza di intermediazione ‘qualitativa’ nella fruizione culturale e politica»: tendenze che privano «la comunicazione pubblica di uno spazio collettivo di dialogo, intermediazione e verifica, essenziali per la formazione della volontà politica, per la deliberazione democratica e per i nostri stessi processi di apprendimento». Tendenze che producono, insieme, fenomeni di dissoluzione e di frammentazione della sfera pubblica, rimanendo tuttavia sempre aperta una radicale antinomia tra la «colonizzazione» passiva del senso comune e il potenziale di emancipazione insito nella razionalità comunicativa.
Gli altri due testi collegano strettamente sfera pubblica e democrazia deliberativa. Habermas viene solitamente considerato il «padre» di questa concezione della democrazia, ma in effetti egli giunse (come per altre vie Rawls) ad incontrare e usare questo termine solo nei primi anni Novanta, con Fatti e norme, laddove le prime elaborazioni teoriche di questo modello nascono, da varie fonti, nel corso del decennio precedente. Un campo teorico oramai molto vasto e differenziato (come testimonia il sopra citato Oxford Handbook), ma che ha certamente trovato in Habermas la più solida fondazione teorica.

NELL’INTERVISTA, in particolare, Habermas ricostruisce il suo ruolo in questa vicenda teorica, liberando il terreno anche da alcuni ricorrenti equivoci (ad esempio, quello sulla controversa nozione di «situazione linguistica ideale»), ma soprattutto definendo la democrazia deliberativa come un modello critico-normativo che, con i suoi esigenti parametri critici (in primo luogo, libertà, inclusività ed uguaglianza), guarda alla qualità complessiva di una democrazia. Un modello che permette di cogliere le vere radici della crisi delle «democrazie capitalistiche» (come esattamente le definisce Habermas): non certo un deficit di governabilità o di decisione, ma al contrario un deficit di legittimazione e riconoscimento, l’assenza di quella partecipazione democratica ad una deliberazione pubblica che soltanto può far sentire i cittadini come attori di una vicenda collettiva. Un approccio da cui emerge, tra l’altro, quanto sia riduttivo, come accade di frequente, identificare la democrazia deliberativa con alcuni specifici modelli partecipativi (in particolare le varie forme di mini-publics fondate sull’estrazione a sorte di un campione di cittadini), modelli che si prestano ad un uso politico ambiguo e strumentale (vedasi Macron).
Un modello, dunque, che nulla concede alle suggestioni della democrazia diretta o che possa essere pensato come un surrogato della democrazia rappresentativa: al contrario, una democrazia rappresentativa, che sia coerente con le sue stesse premesse normative, è essa stessa definibile come una «democrazia deliberativa», in quanto fondata sul costante alimento di un discorso pubblico (di una sfera pubblica, ricca e articolata) che produca al tempo stesso consenso e conflitto, legittimazione e antagonismo, dissonanze e accordi.