Come si potrà fare a meno di Claudio Abate? È mancato ieri, dopo una malattia che lo aveva colpito da poco meno di un anno, il fotografo dell’arte d’avanguardia, ma anche del teatro e di molti altri aspetti della creatività contemporanea, chiamato a lavorare in tante diverse parti del mondo, ma rimasto sempre, e felicemente, a vivere a Roma.
A Roma era nato il 2 agosto del 1943 e su tutto il meglio che questa città può offrire aveva modellato la sua vita, anche quella, come le sue fotografie, un capolavoro. Iniziata nella pittoresca via Margutta, la via degli artisti, dove a quindici anni, nel 1958, rimasto orfano di padre, aprì il suo primo studio. All’epoca trascorreva i pomeriggi negli atelier dei pittori e degli scultori e le notti da Notegen, primo di una lunga serie di caffè, club, ristoranti e trattorie che Abate benedì, sino alla fine, con la sua assidua presenza. A ripensarci ora, è sorprendente come egli, al riparo da ogni retorica, ideologia o eccesso, sia riuscito a condurre una vita libera, proprio come la Roma degli anni Cinquanta e Sessanta prometteva, libera e anticonformista, le cui uniche radici erano quelle affondate nell’arte e nel saper fare. Molte donne, alcuni grandi amori, mai sposato, due figli ai quali spetta ora l’eredità del suo prezioso archivio.

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Nel corso degli anni Ottanta, da via Margutta si era spostato a San Lorenzo seguendo, e in parte anticipando, i luoghi di vita e di lavoro di giovani artisti con i quali rinnovare il rito dell’incontro. Un professionista accurato, disciplinato. Un uomo generoso. Fotografare il museo ordinato da Joseph Beuys a Darmstadt non gli impediva di lavorare con la medesima cura per l’esordiente quasi del tutto privo di mezzi. Mai dispersivo. Affettuoso. Determinato senza mai un briciolo di arroganza.

PERCHÉ RACCONTARE tutto questo? Perché solo guardando alla biografia di Claudio Abate si può tentare di interpretare la sua arte, giusto un abbozzo di lettura dal momento che l’enigma del talento, come è noto, non può essere sciolto.
Sorprendeva la sua capacità selettiva. Uno dei suoi primi ritratti noti, è una foto di Mario Schifano risalente al 1959, una scelta drastica a favore della persona intorno al cui volto, nitido ed espressivo, ambienti e oggetti vaporizzati creano un’aurea.
Non è stato mai stato tentato dal fotogiornalismo, ha sempre preferito l’arte, in particolare l’arte che vive di movimento e nello spazio. Dal 1963 al 1975 è stato il fotografo di Carmelo Bene. «Interessarsi al teatro è stata una scelta naturale per chi non andava a letto mai prima delle tre del mattino», una volta mi ha detto volendo minimizzare il suo lavoro monumentale sull’avanguardia teatrale.

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ALCUNE SUE IMMAGINI del 1969 nate dalla sovrapposizione di scatti, sintetizzano perfettamente la pratica del Living Theatre di mischiare l’azione degli interpreti con quella del pubblico, non una scelta concettuale, ma un espediente tecnico, una soluzione indotta per contagio dalla follia del Living.
Sulla capacità che Claudio Abate aveva di entrare in sintonia è stato scritto molto. È quanto di lui più commuove, l’attitudine, in definitiva, che lo metteva in condizione di creare i suoi capolavori. Maturando una familiarità, spesso un’amicizia, in ore trascorse non lavorando, sapeva cogliere come nessun altro la verità di un’opera, ossia ciò che all’artista soprattutto premeva comunicare, e lo faceva attraverso uno scatto nel quale il rapporto tra oggetto e spazio era tutto finalizzato alla più illuminante delle visioni.

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È stato l’interprete visivo, soprattutto, di una generazione di artisti che ha scelto – come avrebbe detto Jannis Kounellis, tra gli autori cui è stato maggiormente legato – non di fare un quadro nella solitudine del proprio studio per poi imporlo in un altro luogo, ma di saper ascoltare il racconto del luogo stesso… È questo miscuglio di presenze e di reciproche interferenze che Claudio Abate, con arte, perizia tecnica e invenzione, ha saputo restituire. Nel farlo, però, a tutto vantaggio dell’autore, ribaltava paradossalmente i termini, ogni volta esaltando l’inusitata e unica grandezza dell’opera.

LA SINTONIA, di cui era capace, è stata anche foriera di problemi e alcuni dei suoi ritratti – Pino Pascali che fa le capriole accanto alla Vedova blu o che posa imbronciato accanto al cannone, Emilio Prini di profilo, Kounellis con la fiamma ossidrica o con il sasso in bocca, Kounellis con il sacco sulle spalle o che gioca a carte con la sua arte… – o le foto divenute unico documento ufficiale di una determinata installazione, performance o azione, hanno aperto confronti teorici sui confini tra l’opera del fotografo e quella dell’artista sui quali ancora si dibatte. Di Claudio Abate non è possibile fare a meno. Se di un’epoca è morto il cantore, l’angelo, il nume che ne tutelava il senso, quell’epoca è definitivamente passata. Ma come faranno gli artisti più giovani che, generazione dopo generazione, hanno goduto del suo lavoro e sanno che nessuno come lui può rendere la presenza?